Massimo Riva (Brown University)
Per una comunità della formazione letteraria:
il World Wide Web e la nuova italianistica


Sommario:
I. Nuove tecnologie e nuova formazione
II. Ibridazioni
III. Zapping culturale
IV. Che cosa deve fare un critico?
V. Per un'etica dell'ipertesto
VI. Per una comunità della formazione letteraria


§ II. Ibridazioni

I. Nuove tecnologie e nuova formazione

In un rapporto del Massachusetts Institute for Technologies sulle "tecnologie educative avanzate", risalente al 1994, si sottolineava come da una parte sia diventato sempre più incrementalmente facile elaborare ampie quantità di dati in meno tempo e con macchine più piccole e meno costose, dall'altra sia andata altrettanto incrementalmente aumentando quella che gli stilatori del rapporto chiamano connectivity, "connettività". Proprio lo sviluppo ortogonale della connettività, unita a quella che viene definita capacità di "visualizzazione avanzata" (grazie alla quale ad esempio si producono immagini manipolabili di sistemi complessi, a partire dalla loro descrizione matematica) sta dominando e dominerà presumibilmente ancora nei prossimi anni la diffusione delle nuove tecnologie in campo educativo, mentre il computer va definitivamente trasformandosi da elaboratore di dati e word-processor in un congegno della "comunicazione globale".

In breve, diventa sempre più semplice e rapido trattare e trasportare informazione non solo da un luogo all'altro ma da una forma all'altra con la conseguenza che in prospettiva (cito qui direttamente le parole del rapporto) "sarà sempre più facile e conveniente trasferire l'attenzione, focalizzarsi da un punto dello spazio e del tempo a un altro e da un medium a un altro". Questa sintetica definizione della rivoluzione tecnologica in atto è ricca di implicazioni per le nostre pratiche didattiche e di ricerca. Nuovi ambienti e nuovi dispositivi della comunicazione si dischiudono accanto (o si sostituiscono) a quelli tradizionali. Il loro impatto sul nostro lavoro è ancora tutto da verificare, ma evocando scenari futuribili ci si potrebbe spingere fino a interrogarsi sull'avvenire stesso dell'italianistica, dal momento che i nuovi media renderebbero virtualmente obsoleti, grazie appunto alla loro connaturata e onnipervasiva connettività, tanto i confini territoriali tra le culture che i confini accademici tra le "discipline". Una visuale, questa, certo estrema ma non del tutto peregrina sui possibili effetti dirompenti, a lungo raggio, della "parola elettronica" sulla nostra identità professionale, culturale e nazionale tout court.

Per tornare a noi e all'oggi, è facile constatare che la "crisi dell'italianistica" antedata l'avvento del World Wide Web (d'ora in poi WWW). Ma alle notizie dalla crisi andrebbe certamente aggiunta anche questa (forse più acutamente percepibile dall'osservatorio di un college nordamericano che non dall'interno dell'università italiana). Credo però che le ragioni di inquietudine per il ceto docente umanistico la cui cultura è basata sulla stampa siano altre e ancora più fondamentali. È ampiamente diffusa (non solo in Nordamerica) l'opinione che l'avvento delle nuove tecnologie apra nuove frontiere all'alfabetismo, essendo il computer uno strumento innanzitutto "alfabetico".1 E tuttavia Nancy Kaplan ha coniato un termine efficacemente polisemico per connotare alcuni aspetti diciamo così paradossali di questa nuova literacy che, in alcune aree del mondo industrialmente avanzato, andrebbe già sostituendosi o sovrapponendosi alla vecchia. Alla literacy subentrerebbe l'e-literacy, ossia l'alfabetismo nell'età della parola elettronica. Ma questo termine, dall'ironica allitterazione (o paronomàsia) con il-literacy (analfabetismo, più o meno di ritorno), ne suggerisce anche un altro: elite-racy, che allude appunto alla formazione di una nuova elite, la cui cultura e le cui pratiche comunicative si fondano esclusivamente o in gran parte, per dirla questa volta con Nick Negroponte, sull'essere digitale.2 Questa nuova elite ha una identità tendenzialmente trans-nazionale o trans-culturale e la sua "formazione" di base ha luogo non tanto e non solo nelle aule di un liceo o di un'università quanto nell'alveo amorfo della koinè massmediatica.

Non solo, allora, il futuro dell'italianistica ma anche il futuro della "letteratura" tout court (e, ovviamente, non solo di essa) nell'era della parola elettronica sarebbe nelle mani (o nelle menti) di questa elite in formazione, magari (da certi punti di vista e secondo certi più tradizionali criteri) "illetterata" ma iniziata ai nuovi linguaggi della programmazione e del software design, e più in generale, nell'epoca del WWW, all'uso e alla manipolazione "creativa" dei nuovi "oggetti" o "simboli" elettronici. In questa situazione, per citare una delle "lettere agli interconnessi" del Bollettino '900, è giocoforza constatare che "quel che a poco a poco sta cambiando forse più significativamente è la stratificazione, la distribuzione del letterario", imponendoci "una considerazione nuova della scrittura stessa, come luogo dello scambio e della pluri-appartenenza".3 Ma va subito chiarito che parliamo qui, di una "scrittura", di una "formazione", di una "letteratura", radicalmente trasformate dalla connettività e visualizzazione senza precedenti consentite dal nuovo scriptorium virtuale. Su questo più ampio sfondo non possono a mio avviso non collocarsi anche i discorsi (di più modesto raggio) sul futuro (o il presente) dell'italianistica.

Il WWW -- si legge ancora nel citato rapporto di MIT -- ci fornisce un insieme di metafore che possono aiutarci a ipotizzare l'evoluzione delle nuove tecnologie in campo educativo. Ma più che di metafore si dovrebbe forse parlare di catacresi, come precisa di recente J. Hillis Miller in un articolo sul quale torneremo,4 e cioè di una sorta di trasferimento "abusivo" di nomi o espressioni familiari -- tela, rete, mosaico, autostrada, galassia ecc. ecc. -- a qualcosa che, in sé, non è rappresentabile se non attraverso una complessa descrizione tecnica.5 Siamo in altre parole, di fronte ad una traduzione (o, con parola più specifica, un interfaccia grafico-linguistico-cognitivo) di un dispositivo tecnologico, che mentre semplifica e "volgarizza", tratto non trascurabile, allo stesso tempo iconizza le sue modalità di applicazione in una sorta di (pseudo)-sistema simbolico statu nascenti. Alla metaforesi (o catacresi) tipica della nuova retorica (un fenomeno ricorrente nella storia culturale delle nuove tecnologie) si accoppia così, tipicamente, il trionfo dell'acronimo, una sorta di semplificazione tecnico-operazionale del linguaggio, con effetti tendenzialmente (per i non iniziati o non addetti) crittografici.6 Queste due lingue, queste due retoriche, amplificatoria e immaginosa l'una, semplificatoria e criptica l'altra, convivono nel mondo di Internet.

 

§ III. Zapping culturale

II. Ibridazioni

Simile, tanto agli occhi di alcuni suoi detrattori che di alcuni suoi esaltatori, ad un "graffito globale", una specie di patchwork o puzzle o cartoon multiculturale e babelico, il WWW è l'autentico luogo dello scambio, della pluriappartenenza e della nuova stratificazione e definizione del "letterario" di cui si parlava prima. Non solo in esso -- nuova infrastruttura del sapere -- vengono a confluire (virtualmente) tutti i media "tradizionali", ma entro i suoi semovibili e permeabili confini vengono a ridefinirsi i rapporti tra le due modalità fondamentali della produzione e diffusione di "forme simboliche": parola e immagine (altri mezzi consentono ancora una più efficiente ed efficace diffusione della combinazione immagine-suono, ma ciò presumibilmente cambierà nei prossimi anni).7 In breve, lo scriptorium simulato e interconnesso del WWW sembra perfettamente in sintonia con una economia globale dei segni in cui le merci (incluse quelle culturali) circolano come "rappresentazioni" (e non solo come semplice "informazione" codificata).

Scenario di una riconfigurazione complessiva dell'oggetto culturale, il WWW è anche la vetrina della nuova accademia, insieme di campus virtuali in cui si proietta la competizione universitaria con i suoi logotipi o colofoni, insomma i suoi vari marchi di fabbrica. Come tale, è il medium di una redistribuzione dei "canoni", delle discipline e delle gerarchie tradizionali implicite in un regime educativo che, da una parte, si basa ancora (grosso modo) sull'ordinamento humboldtiano, al servizio dello stato-nazione, e dall'altra si riorganizza come luogo virtuale di una formazione trasnazionale e ad alto tenore tecnologico, più adeguata al "nuovo ordine" economico.8 Ma non si tratta soltanto del tramonto degli orizzonti nazionali (il WWW non ha frontiere) o della crisi o ridefinizione dei rapporti tra cultura "alta" e "bassa" (o popolare), o tra cultura di elite e cultura di massa, bensì di una vera e simultanea riconfigurazione della "sfera pubblica" e della sfera "estetica" e "cognitiva", caratteristica di tutte le forme di comunicazione telematica: in breve "l'ipertesto, il multimedia interattivo, i videogiochi, la simulazione, la realtà virtuale, la telepresenza, l'iper-realtà, i groupware, i programmi neuromimetici, la vita artificiale, i sistemi esperti, ecc." (per limitarsi ai dispositivi del cyberspazio estetico e della nuova "intelligenza collettiva" elencati da Pierre Lévy) presi insieme significherebbero la "fine del logocentrismo, della supremazia del discorso sulle altre modalità di comunicazione", aprendo la via ad una "risalita al di qua del cammino aperto dalla scrittura...verso... un piano semiotico deterritorializzato", sul quale impallidisce la tradizionale "separazione tra emissione e ricezione, composizione e interpretazione".9

Il confronto tra i fautori e i detrattori del cosiddetto "logocentrismo" è uno degli aspetti indubbiamente più sintomatici del dibattito in corso sull'impatto delle nuove tecnologie e tuttavia, per quanto seducente possa essere prestare ascolto alle sirene di un futuro per molti aspetti già incalzante, vale forse la pena di richiamarsi ancora all'oggi, ossia ad una fase di transizione (o convivenza) tra paradigmi non ancora radicalmente alternativi. In questa "tarda età tipografica" (come la definisce Jay Bolter)10 sono piuttosto le forme di ibridazione tra il vecchio e il nuovo che colpiscono. E l'ibridazione e la produzione di forme, generi trans-culturali, può essere considerata, insieme all'indigenizzazione di prodotti culturali d'importazione, una delle principali caratteristiche del "significare in movimento" tipico della nuova connettività.

Quando si parla di ibridazione, ovviamente, ci si deve riferire innanzitutto alle nostre fondamentali pratiche "alfabetiche": lettura e scrittura. Dell'emergere di una specie nuova, "anarchica" di lettori, nel quadro di una "coesistenza nello stesso sistema mediatico dei libri (e degli altri prodotti a stampa) con gli audiovisivi" si parla ormai da tempo. E certe tendenze di fondo, rafforzate dall'avvento del WWW, erano già all'opera prima della sua esplosione (con l'introduzione del browser Mosaic) nel 1993. Come scriveva Armando Petrucci già sette anni or sono, riflettendo sul futuro della lettura (con un occhio non a caso al modello americano):

...per quello che si può prevedere, sembra che da una parte, sul piano generale, l'indebolimento del canone occidentale e il mescolarsi in esso, in situazioni multirazziali e conflittuali, di altri repertori, e dall'altra l'affermarsi, sul piano individuale, di pratiche "anarchiche" stiano rendendo la lettura un fenomeno frantumato e diversificato e una pratica del tutto priva di regole se non a livello personale o di piccoli gruppi; tutto il contrario, dunque, di quanto accade con i mass-media elettronici e in particolare con la televisione, il cui "canone" di programmi tende invece rapidamente ad uniformarsi a livello mondiale e ad omologare il pubblico, a qualsiasi tradizione culturale esso appartenga; anche se la guerriglia dello zapping comincia a costituire un fattore di anarchico disordine individuale all'interno del ferreo "ordine del video".11

Disseminazione anarchica (locale) e omologazione globale del "sapere" sarebbero le forze (simmetriche ed opposte) simultaneamente all'opera nello "pseudo-villaggio" contemporaneo: i processi di alfabetizzazione sembrano in effetti a prima vista caratterizzati da una divaricazione di fondo che vede da una parte coloro che ricevono la loro pre-fabbricata visione del mondo tramite mass media passivi come la TV e dall'altra coloro invece che mantengono un qualche potere di selezione-emissione "attiva" o "interattiva" grazie appunto ai nuovi strumenti della scrittura/lettura elettronica (per non parlare della familiarità con pratiche di lettura considerate "locali" o "private" come quella dei libri o di altri prodotti a stampa). Ma a parte il fatto che la divisione, nel mondo tecnologicamente avanzato, non è poi così netta, a livello di massa, come potrebbe sembrare, anche l'elite massificata e sovranazionale (che si descriveva all'inizio -- i miei studenti in breve), per la quale la lettura degli stessi libri (o prodotti a stampa) è sostituita dall'ascolto della stessa musica e dalla comunicazione on line, ha i suoi problemi di identità: all'esplosione dei "canoni" e delle identità culturali tradizionali si affianca e si intreccia la disseminazione capillare di una lingua "forte" e dominante, l'inglese, vera koiné o "grammatica" (con tutti i suoi dialetti o pidginizzazioni) della tecnocultura. Viceversa, e simultaneamente, l'accesso a tecnologie della comunicazione globale, pur orientate al consumo, facilita la costruzione di comunità linguistico-culturali indipendenti dalla loro ubicazione geografica.12

Che gli sviluppi tanto tecnologici che commerciali sembrino spingere, nel mondo tecnologicamente avanzato, verso una "fusione" di TV e computer, ossia verso una crescente ibridazione di comunicazione elettronica e consumo massmediatico, è un'ulteriore conferma che la deterritorializzazione e riterritorializzazione in corso è un poco più complessa di quello che non indichi la semplice contrapposizione tra omologazione globale e "anarchia" locale. È difficile dunque prevedere l'esito del confronto tra coloro che vorrebbero vedere nei nuovi media la liberazione dell'alfabetismo dalle maglie repressive della "linearità logocentrica" e coloro invece che vedono materializzarsi in essi nuovi dispositivi di omologazione e manipolazione del discorso. Una cosa è certa: è l'intreccio tra micro-processi cognitivi e macro-processi antropologico-sociali che andrebbe messo meglio a fuoco, ma ciò può farsi solo (come suggerisce anche Petrucci e nonostante il ritmo vorticoso dell'innovazione tecnologica) sulla base di una durata più lunga che non i pochi lustri (uno solo, nel caso del WWW) in cui questi mutamenti hanno cominciato a far sentire i loro effetti. In rapporto allo sviluppo dell'alfabeto e al nuovo interfaccia da esso rappresentato Jack Goody scriveva già dieci anni or sono:

È un grossolano ed etnocentrico errore europeo quello di attribuire troppo all'alfabeto e troppo parimenti all'Occidente. Ciononostante, una forma potenzialmente democratica di scrittura che poteva, qualora consentitole, aprire con la facile trascrizione del linguaggio e l'accesso diretto all'apprendimento una possibilità per la vasta maggioranza della comunità, fece seguito allo sviluppo dell'alfabeto e del sillabario. Ma è soltanto con l'emergere dei mezzi meccanici di riproduzione dei testi con caratteri mobili che l'alfabeto dispiega interamente le proprie possibilità. Parimenti, fu il numero limitato di segni alfabetici che consentirono all'Europa di sfruttare i benefici dei caratteri mobili utilizzati precedentemente nell'Est.13

Si può forse aggiungere che soltanto con l'emergere dei mezzi elettronici di produzione/riproduzione dei testi l'alfabetismo occidentale (con la sua "facile trascrizione del linguaggio") dispiega interamente tanto il proprio potenziale che le proprie intrinseche contraddizioni. Con una certa cautela (e non perché non se ne voglia per nulla condividere l'ottimismo), vanno allora accolte affermazioni troppo trionfalmente occidentalocentriche come ad esempio questo pronunciamento "neo-hegeliano" di Richard Lanham (che questa forma di neo-hegelismo provenga oggi dagli Stati Uniti non stupirà, ovviamente, nessuno): "A differenza di molti umanisti nel discutere la tecnologia sostengo una tesi ottimistica. Penso che l'avvento dell'espressione elettronica non distruggerà le arti e le lettere dell'Occidente, ma le porterà a compimento. E penso anche che le pratiche didattiche e educative costituite sulla parola elettronica non ripudieranno le correnti più profonde e fondamentali della formazione occidentale, basata sul discorso, ma al contrario le redimeranno..."14 Questo spirito moderatamente messianico (come quello, al contrario, radicalmente palingenetico di altri profeti del cyberspazio) non è limitato (come si è visto dalla citazione di Lévy) agli Stati Uniti, anche se sembra delinearsi oggi, in Europa, una certa resistenza (o reazione) al mito new age (tipicamente americano) della (falsa) innocenza o dell'Eden tecnologico, che sarebbe secondo alcuni (Hollywood docet) solo l'altra faccia o la maschera di un altrettanto mitico Leviatano imperial-multinazional-tecnologico. Questo ottimismo convive spesso con la convinzione (a tendenza elegiaca tra noi umanisti) di partecipare oggi alla nostra estinzione. Ma è in fin dei conti chiaro che il serrato confronto tra apocalittici e integrati o tra chi ipotizza o auspica una fuoruscita dal "logocentrismo" e chi vede invece nei nuovi strumenti un trionfo del "discorso" (occidentale) non è in fondo che un rinnovato dibattito sui pro e i contro della tecnologia. Se l'era della parola elettronica segnerà la fine delle religioni del Libro o la fine (o il trionfo) della Democrazia planetaria basata sul "discorso" (e sul mercato) è cosa che resta da vedere. Il "template metafisico per il nostro futuro elettronico" (come lo chiama Umberto Eco nel suo Afterword a The Future of the Book) è ancora tutto da immaginare e pare effettivamente più plausibile ipotizzare, per il nostro futuro più imminente, una sorta di ibridazione neo-costruttivista, (con tratti seriocomici à la Rube Goldberg).15

 

§ IV. Che cosa deve fare un critico?

III. Zapping culturale

Simile allo zapping, l'ibridazione tipica dei nuovi ambienti ipertestuali come il WWW attiva un tipo nuovo di letterato (literate) per il quale tra i fondamentali gesti cognitivi della lettura e della scrittura se ne interpone un altro, la creazione di collegamenti (linking, ovvero l'arte o techne del colligare e del colligere). Che si limiti all'esplorazione di ciò che è già collegato o si spinga alla creazione di nuove connessioni, il nuovo scrilettore, per usare il neologismo di Landow, nel pieno dispiegarsi delle sue capacità, trasferisce gradualmente l'anarchia dello zapping dal privato (la solitudine del lettore/spettatore) al pubblico, su di un piano quindi, l'accesso al quale era in precedenza più o meno strettamente regolato dalle gerarchie economiche e dai sistemi di controllo istituzionalizzatisi entro il paradigma tipografico.16 Per limitarci a fornire un esempio tratto dalla sfera della comunicazione "accademica", con lo sviluppo vorticoso di utensili e programmi per la produzione di documenti in html (hypertext markup language), la pubblicazione sul WWW, da parte di chiunque abbia accesso a un server (e se ne sappia servire) diventa relativamente più facile che la scrittura di un saggio, un articolo o il capitolo di un libro. Ecco una prima (da alcuni, all'interno dell'accademia ma anche dell'editoria, paventata) conseguenza pratica. Grazie ai nuovi mezzi, e ai servizi di accesso provvisti con larghezza (per il momento almeno e non certo a basso costo per l'utente studentesco) dalle università americane, pubblicazione e scrittura, per così dire si invertono le parti: laddove diventa più facile pubblicare che scrivere, il vecchio motto dell'accademia americana, "publish or perish", rischia di perdere di senso, o meglio di diventare una nemesi collettiva. Stampa (si fa per dire) assicurata, quindi? Tutti autori ed editori di se stessi nella nuova massificata società e-letteraria (alla quale un qualsiasi studente undergraduate di un college americano ha, per il momento almeno, più facile accesso di un docente universitario in Polonia o in Italia)?

Agli scenari di incontrollabile anarchia si accavallano quelli di una darwiniana selezione spontanea della nuova specie autoriale (basata a sua volta, paradossalmente, sull'estinzione e proliferazione post-mortem dell'autore). Ma c'è anche chi, come Stephen Harnad, dalla sua postazione di Princeton, avanza l'ipotesi che il WWW possa rappresentare già oggi un'alternativa concreta e salutare (ed economica) allo "scambio faustiano" tra ricerca, mercato e editoria, consentendo anche alle discipline o le forme del discorso più "esoteriche" (tali persino dal punto di vista del mercato accademico, quali ad esempio le lingue e letterature botno-ugriche coltivate dal prof. Uzzi-Tuzzii di un noto romanzo di Calvino) di conservare un proprio vitale spazio pubblico, sottraendosi tanto ai calcoli degli editori che ai capricci delle mode (e dunque a una plausibile obsolescenza o dissolvenza culturale).17 Nella nuova e continuamente aggiornantesi enciclopedia del WWW, tutto sembra o può trovare posto (se non proprio il posto che gli compete). E Harnad avanza anche delle concrete proposte per aggirare le obiezioni che gli si sentono spesso ventilare come: 1) Il Net non è un luogo adatto per la ricerca scientifica seria (risposta: che si implementi un sistema di "peer review" sul Net e lo diventerà; la "peer review" è indipendente dal medium); 2) Il Net genererà tanta informazione che sarà impossibile distinguere "autentico segnale" e "rumore di fondo" (risposta: vedi il punto precedente; inoltre il Net può generare strumenti di ricerca e di selezione infinitamente più potenti degli occhi e delle dita che sfogliano le pagine); 3) il Net costerà come e più della carta anche se il prezzo (per ora) è sopportato da governi e istituzioni universitarie (risposta: il vasto uso commerciale renderà un particolare triviale la concessione alla scienza e alla ricerca "esoterica" di spazi liberi a basso costo, a parte l'ironia che sono le istituzioni accademiche oggi a sussidiare il Net e non viceversa); 4) il Net non può garantire l'archiviazione perpetua del sapere (risposta: e le biblioteche? nastri, dischi e loro successori sono più vulnerabili della carta? a parte il fatto che si può avere anche una versione cartacea dei materiali considerati più essenziali); 5) i costi della pubblicazione elettronica per pagina sono solo il 20 o 30% meno di quelli cartacei (risposta: se l'obiettivo fosse interamente elettronico il risparmio sarebbe più vicino al 70%).

Dal canto suo, James O' Donnel, anch'egli in una pagina leggibile on line,18 una vera e propria guida all'uso accademico del WWW, menziona, tra l'altro tre modi specifici in cui la pubblicazione sul WWW, lungi dal sostituire, può integrare oggi la tradizionale diffusione a stampa del proprio lavoro, andando a prefigurare inoltre forme nuove della "legittimazione" accademica: quelli che chiama "preprints, paraprints e postprints" (ossia "pre-stampa", "para-stampa" e "post-stampa"). Il caso della "prestampa" è quello praticato già da anni dalla comunità scientifica, un metodo cruciale di informare ed informarsi sul reciproco work-in-progress (un server a Los Alamos distribuirebbe pressoché tutta la "prestampa" scientifica disponibile). Alla categoria della "parastampa" potrebbero appartenere invece, ad esempio, dice O' Donnel, 470 illustrazioni su 500, che per ovvie ragioni di costi e spazi, non sono potute entrare in un volume pur riccamente illustrato, ma la cui disponibilità in rete (magari presso il sito dell'editore) rende lo stesso volume ancora più valido e desiderabile dalla comunità allargata dei lettori o degli specialisti. Lo stesso può dirsi (e farsi) per interi testi (ivi inclusi incunaboli o manoscritti) di difficile reperimento e commercializzazione come tali (perché rari o troppo costosi da distribuire anche in veste anastatica) ma di supporto essenziale a monografie, saggi ecc. in un gioco di rimandi e di rimbalzi dal libro alla rete e viceversa, tra pubblicazione a stampa e on-line. Altra possibilità, menzionata da O' Donnel, la "post-stampa" di testi ormai fuori commercio la cui ripubblicazione non è più interesse dell'editore ma può esserlo, di nuovo, dell'autore o, talvolta, della comunità scientifica allargata. Sono solo tre esempi (ce ne sarebbero molti altri) di una possibile ibridazione già ampiamente in corso tra tecnologie e pratiche vecchie e nuove entro una comunità scientifica che utilizzi razionalmente e innovativamente entrambi i supporti, o piattaforme, (quella tipografica e quella informatica o elettronica) e sfrutti al meglio la possibilità e capacità di muovere informazione da un luogo all'altro e da una forma all'altra.19

Tutto questo, però, non può ovviamente soddisfare gli interrogativi radicali di chi mette in questione né placare le preoccupazioni di chi vorrebbe "regolare" già al suo nascere la nuova "sfera pubblica", sottraendola, per quanto possibile, alle forme spontaneamente "anarchiche" e potenzialmente dirompenti della comunicazione on line. Ma forse è proprio l'atteggiamento aprioristicamente "regolatore" che pare inadeguato a rispondere alla sfida delle nuove tecnologie, semplicemente perché, come si diceva, è troppo presto ancora per fissare regole auree o ferree (oltretutto facilmente aggirabili e scardinabili). Se siamo tutti consapevoli dell'importanza cruciale che assume oggi l'utilizzazione dei nuovi media per produrre/trasmettere "oggetti" o rappresentazioni ad alto "contenuto culturale" che siano in grado di competere (per così dire) con la proliferazione di "oggetti" a basso (talvolta, va detto, molto basso) contenuto culturale ma alto valore commerciale, bisogna essere altrettanto consapevoli che proprio "forme" e "contenuti", e il senso di "alto" e "basso", vanno radicalmente ripensati nel nuovo medium. Ecco allora la metafora princeps che il WWW ci offre, di natura squisitamente politica: in una utopica società e-letteraria, perfettamente democratica, dove tutti gli e-lettori, nessuno virtualmente escluso, sono anche e-scrittori e hanno accesso diretto alla pubblicazione pressoché istantanea di quel che scrivono, il vecchio ordine costituito, basato sulla distinzione tra pubblico e privato, tra esoterico e essoterico, tra "diritto d'autore" e "diritto del lettore" o tra "autorità autentica" e "mera doxa" va pazientemente ricostruito nella consapevolezza che ogni gerarchizzazione (a parte quella fondamentale basata sui meccanismi tecnologici ed economici) tenderà inevitabilmente a farsi più ardua e conflittuale (o paradossale, secondo i gusti).20 Si può certo pronosticare un simile futuro. Una cosa è certa: persino in una situazione di estremo, ipotetico (e piuttosto utopistico) empowerment per la grande maggioranza degli e-letterati, non solo il professor Uzzi-Tuzzii ma nemmeno il comune lettore (nostro semblable ) potrà più facilmente sottrarsi alle grinfie dei più volitivi o dei più spregiudicati tra noi, siano essi la grintosa Lotaria o il fantomatico Ermes Marana.

 

§ V. Per un'etica dell'ipertesto

IV. Che cosa deve fare un critico?

Che fare allora in un contesto in cui, come ci ricorda tra gli altri Eco, il concetto di literacy include ormai una varietà di media e i computers diffondono una nuova forma di alfabetizzazione ma sono (ancora) incapaci di soddisfare tutti i bisogni intellettuali che stimolano? Una cosa, a mio avviso, è chiara: i letterati non possono fare a meno di diventare e-letterati. Ciò significa innanzitutto rendersi conto di quanto la definizione stessa della nostra disciplina, a cominciare dalle pratiche che la caratterizzano, anche le più intellettualmente sofisticate, siano condizionate o addirittura dipendano dal supporto tecnologico sul quale le esercitiamo. Cosa succede alla "lettera" (materia prima del nostro "lavoro", pur sempre l'etimo di "letterario" e di "letteratura") nel momento della sua digitalizzazione, ossia nel momento in cui è sempre più possibile e diviene quasi connaturato per chi si alfabetizza nei nuovi ambienti "trasferire l'attenzione, focalizzarsi da un punto dello spazio e del tempo a un altro e da un medium a un altro"? È questo un interrogativo la cui risposta non può essere lasciata ai "tecnici" o ai profeti del cyberspazio -- e tanto meno elusa.21

Lettere e testi paiono fluttuare liberamente nella nuova sfera cognitiva, insieme a immagini e altre rappresentazioni icono-grafiche. Ma nell'ambito dei processi macroscopici di trasformazione del significato stesso della literacy, un punto saldo (o un minimo obiettivo) sembra essere quello dell'educazione alla lettura (uno dei bisogni fondamentali che i computers stimolano ma non soddisfano). La formazione di "buoni lettori", e di lettori critici, siano essi lettori di libri (o di altri prodotti a stampa) o lettori di testi on line, rimane un compito imprescindibile di noi "formatori", in particolare di noi docenti di letteratura. Anzi, le tecniche raffinate di lettura e critica dei testi (dai procedimenti della loro costituzione alle procedure della loro interpretazione) messe a punto storicamente nell'ambito degli studi letterari, sembrano accrescersi di (relativo) valore, parallelamente alla crisi dello statuto stesso del testo letterario e della comunicazione letteraria in quanto tali; tanto che, a mio avviso, si può effettivamente parlare oggi di una redistribuzione del letterario come valore sociale diffuso. Si tratta, in altre parole, di promuovere ancora di più lo stimolo alla lettura che può derivare dall'uso dei computers, arricchendolo, inoltre, di istanze critico-ermeneutiche. Ma questo compito diciamo così di formatori di base alla lettura, già messo alla prova dalla velocizzazione connaturata alla parola elettronica, si complica maggiormente nel momento in cui, come avviene negli ambienti ipertestuali, lettura e scrittura si ibridizzano sempre di più: questo è certamente più avvertibile nel sistema educativo americano, parlo soprattutto di quello universitario, incentrato sull'attivazione della scrittura quale strumento di espressione e apprendimento più di quanto non lo sia in quello italiano, ancora, mi pare, sostanzialmente articolato sull'elaborazione-comunicazione orale del sapere (fino allo scoglio della tesi). Ma anche in questo campo la sfida va raccolta.

Comincia a imporsi oggi una tendenza che vede la scrittura non più come semplice riproduzione ma come visualizzazione attiva (o videazione) del pensiero, un'altra modalità di quella visualizzazione avanzata di sistemi complessi (in questo caso simbolici) che caratterizza le nuove tecnologie nel loro insieme (e le loro applicazioni educative in particolare). L'avanzamento dell'alfabetismo coincide così con una crisi delle nostre nozioni tradizionali del leggere e scrivere e nuove sfide, più radicali, si profilano al didatta e al critico della letteratura, spingendolo a reinventarsi il proprio ruolo, sperimentando innanzitutto su di sé i mutamenti in corso.22

Evocando la silenziosa (o chiassosa) cyborghizzazione in corso, verrebbe voglia di riprendere la frase di José Saramago (riferibile a quelle che un tempo si sarebbero chiamate "varianti d'autore"): che "il computer è un campo di battaglia dove morti e feriti battono in ritirata" (e scompaiono di vista).23 Le resistenze al nuovo "paradigma" e ai nuovi ambienti di lavoro (vi sto solo alludendo qui) sono comprensibili (anche se le loro motivazioni più o meno profonde andrebbero di volta in volta accuratamente indagate). Che effetto ha l'uso del computer (come wp e come congegno della comunicazione globale) sul metodo e sull'etica stessa del nostro lavoro? Nel pieno (e siamo solo all'inizio) di una transizione è comprensibile che ci si abbandoni all'entusiasmo per le sue potenzialità liberatorie o che si affacci il timore che il nuovo dispositivo assorba, incorpori ed elida la memoria viva (e le pratiche affermate dopo lunga selezione) dei dispositivi precedenti e dei loro prodotti (come i libri, a cui siamo giustamente affezionati). D'altra parte, come si apprende da una lettura anche solo superficiale degli scritti di McLuhan è facile, soprattutto in età di transizione e di convivenza (non sempre pacifica) tra un medium e l'altro, scontrarsi col fatto che "il contenuto del nuovo medium è sempre un vecchio medium".

Nel periodo degli incunaboli i libri venivano stampati in modo da rassomigliare il più accuratamente possibile a manoscritti. Viceversa, come ci ricorda ancora James O' Donnel, l'Abate di Sponheim (Johannes Trithemius), tardo difensore della cultura monastica dello scriptorium, incoraggiava i suoi monaci a continuare a ricopiare a mano i testi già stampati, sia per preservare la diligenza e la disciplina necessaria a un tale compito (potremmo chiamarla la regola devota della scrittura lineare) sia per sopperire a quella che ai suoi occhi si presentava come l'estrema aleatorietà della stampa su carta rispetto ai manoscritti.24 La stessa aleatorietà avvolge oggi minacciosamente, agli occhi di molti, il testo smaterializzato e atomizzato dalla digitalizzazione, un ulteriore passo verso quella secolarizzazione (o profanazione) integrale delle pratiche testuali, ormai sganciate da qualsiasi ontologia (o teologia) della parola -- estrema secolarizzazione che pare davvero irreversibile, caratterizzando di sé tutta quanta la modernità.

Di fronte a questa crisi "spirituale" dell'alfabetismo, una possibile risposta della comunità accademica potrebbe risultare simile a quella di Trithemius. Certo, laddove l'unità del testo viene meno, anche quelle pratiche comunitarie fondate sul riferimento a testi (storicamente e criticamente) stabiliti, come gli studi letterari, si vedono minacciate alle fondamenta (e questa è una minaccia che si aggiunge allo zapping culturale che erode i canoni e le tradizioni delle letterature cosiddette nazionali). Un modello monastico-umanistico di custodia del passato ha dunque il suo valore, se custodisce e aggiorna simultaneamente i suoi strumenti entro la nuova infrastruttura. E tuttavia, a mio avviso, la risposta della comunità umanistica non può fermarsi qui.

Se, nel nostro ambito specialistico, alla luce della mutazione in corso del lettore in scrilettore, appare ormai datato ridurre il dibattito teoretico e critico allo scontro tra i sostenitori del principio (e diritto) d'Autore e quelli della libido (e libertà) del Lettore, si può invece dire -- basti guardare alle discussioni sugli ipertesti -- che le istanze più "anarchiche" e quelle invece più "conservatrici" tendano oggi a polarizzarsi tra i fautori di un uso sperimentalmente "creativo" o "espressivo" e quelli di un uso sorvegliatamente "accademico" o "scolastico", quest'ultimo sostanzialmente modellato ancora sulla "civiltà del Libro", del nuovo scriptorium. Una divisione tutto sommato non nuova nella lunga storia della cultura umana. E tuttavia è forse il caso di evitare le polarizzazioni troppo facili.

Trascurando il rifiuto "luddista" delle nuove tecnologie, George Landow osserva che fino al giorno in cui queste si svilupperanno al punto che l'ipertesto elettronico diventerà uno dei media principali (se non il medium dominante) del discorso critico, si continueranno a produrre discussioni a stampa (come la presente) su di esso, discussioni che non possono non dipendere (ambiguamente) dal doppio regime in cui si collocano.25 Di questo "doppio regime" dobbiamo essere fortemente consapevoli. Un compito importante che un critico ha di fronte, in questa situazione, è la riconsiderazione genealogica dei fondamentali mutamenti nell'idea stessa di "letteratura" attraverso contesti tecnologici e comunicativi precedenti a quelli attuali, ossia una ri-valutazione storica degli effetti diretti o indiretti, immediati o a lunga gittata, dei dispositivi tecnologici sulle nostre pratiche di produzione e ricezione dei testi, ivi incluse, eminentemente, scrittura e lettura.26 Una relativizzazione, insomma, del nostro concetto operativo di "testo", nel momento in cui, come dice Lanham, è il "sistema operativo" (non solo il software retorico) della cultura umana che sta cambiando.

La conclusione è semplice: secondo Landow, la risposta alla domanda che cosa deve fare un critico che non sia, per formazione o convinzione, del tutto refrattario o insensibile rispetto ai quesiti che ci poniamo qui, è in fondo semplice e formulabile così: bisogna scrivere in ipertesto, sperimentare in pieno il nuovo ambiente elettronico privo di gravità, avventurarsi sul WWW per dimostrare o sfatare la accuratezza e la tenuta di certi presupposti teorici (o templates metafisici) cui, per formazione o per cultura, siamo (nostalgicamente o pervicacemente) attaccati. Teorizzare senza pratica è altrettanto nocivo che praticare senza teoria. Lasciare che sia l'innovazione tecnologica a dettare il passo o, viceversa, considerarla solo uno strumento neutrale al servizio di una astratta metafisica sono due forme, ancorché simmetricamente invertite, della stessa fallacia.

 

§ VI. Per una comunità della formazione letteraria

V. Per un'etica dell'ipertesto

Nella prospettiva di Landow sembra inevitabile che la grande convergenza tra teoria critica (post-strutturalistica) e tecnologia finisca coll'imporsi nella pratica ipertestuale. In questo quadro un compito più radicalmente iconoclastico o militante che il critico si assume è quello di utilizzare attivamente la parola elettronica, i dispositivi ipertestuali e i nuovi ambienti della scrilettura, per "decostruire" gli aspetti divenuti ormai una "seconda natura" e dunque reificati e mistificanti, della cultura basata sulla stampa.27 Questo sembra avere per inevitabile conseguenza l'abolizione (operativa) dei confini (convenzionali) tra il discorso critico e il suo oggetto, il testo letterario, ovvero una sostanziale ibridazione tra il testo e la sua interpretazione.

Volendo subito obiettare, ci si potrebbe forse limitare a distinguere (come fa Umberto Eco) tra produzione e interpretazione dei testi e aggiungere che il problema degli ipertesti è in fondo questo: ciò che vale per i sistemi (incluso quello letterario) non vale per i testi (incluso un testo letterario) poiché un testo non è un sistema linguistico (o enciclopedico) e dunque, per quanto possa sollecitare un alto numero di interpretazioni possibili, riduce le infinite o indefinite possibilità di un sistema di generare universi testuali (aperti o chiusi). Il che si potrebbe ritradurre così (ad uso di o direttiva per noi docenti): gli ipertesti sono utili strumenti sistemici di assemblamento/consultazione di informazione (tendenzialmente enciclopedica), ma, applicati (o sostituiti) ai "testi", hanno limitate (se non dannose) capacità euristiche. Ma il fatto è che i dispositivi ipertestuali mettono in questione proprio la distinzione o i confini operativi tra "testo" e "sistema", non solo concedendo all'utente (apprendista) di intromettersi e interferire nei meccanismi testuali e dunque "manometterli", ma forzandoci innanzitutto a capire qual è il sistema (operativo) che soggiace a un "testo".

Di conseguenza, dobbiamo certo chiederci se un tale strumento sia utile o nocivo ai compiti che ci proponiamo (in quanto educatori alla lettura), ma anche porci il problema di come renderlo utile e produttivo (in quanto educatori alla scrilettura), a meno di non volere abdicare al nostro ruolo (o educational leadership, come si dice nel gergo dell'accademia americana). Come scrive Michael Joyce è forse di una pedagogia che sia al contempo una poetica e di una poetica che si manifesti in forma pedagogica che abbiamo essenzialmente bisogno: insomma di un'altra ibridazione.28

Northrop Frye diceva che la letteratura non si insegna (si legge), ciò che si insegna (e si scrive, quando si fa della critica) è la teoria della letteratura. Nella prospettiva che stiamo esaminando teoria (sistemica) e letteratura (i testi, prodotti "imprevedibili" del sistema) si contaminano in una forma nuova di appropriazione critica che, come dice Landow, semplicemente "avviene" o si realizza in ipertesto.29 Non credo vada sottovalutato quanto quest'ultima visuale si carichi dei riflessi di una pedagogia attivistica tipica della cultura americana. Ma essa riflette anche la duplice articolazione di quella che potremmo definire la "grammatologia applicata" contemporanea, in un'età che, secondo i più radicali rappresentanti di questa tendenza, vede ineluttabilmente avvicinarsi la fine (o il superamento) della civiltà del libro che Derrida preconizzava in De la Grammatologie. In tale prospettiva, tutto ciò che ha a che fare con le pratiche dell'apprendimento e con la disciplina della parola è istituzionalmente da considerarsi un effetto secondario dell'apparato di alfabetizzazione. E tale apparato (nella sua concreta struttura) è una sorta di "macchina sociale" che funziona su supporti tecnologici. "L'apparato elettronico è una macchina sociale...Il mio esperimento è piuttosto quello di decostruire la metafora che associa il metodo con l'esplorazione coloniale...", scrive Gregory Ulmer.30 Siamo così tornati alla retorica (metaforica) da cui eravamo partiti. Ma l'ipertesto, il multimedia prepara il trionfo della teoria (post-strutturalista) o l'emancipazione di una pratica "creativa" e "immaginifica"?

Nell'attesa che lo schermo rimpiazzi la pagina e il database la biblioteca, scrive Ulmer, proponendo la sua "ricetta elettronica" (sic), va introdotto "l'uso di strategie euristiche di invenzione ispirate al(la forma) libro...rivedendo pratiche cartacee alla luce delle nuove possibilità cognitive manifestate dalla tecnologia elettronica".31 Il che, nel nuovo ambiente elettronico, implica appunto un'ibridazione : l'innesto della "nuova" retorica mentre la si inventa, a partire dalla "vecchia", secondo una logica tipicamente sperimentale ma riveduta alla luce delle fondamentali esperienze dell'avanguardia artistica novecentesca: per Ulmer la nuova iper-retorica "ha qualcosa in comune con la onirica dei surrealisti", ma contaminata dall'inconscio collettivo dei mass media; Lanham invece dà come antenati illustrativi, anche se superfluamente "aggressivi", di una manipolazione elettronica creativa del complesso iconico-alfabetico, i futuristi e i dadaisti, (ma si rifa anche ai doodles di Kenneth Burke e alla sua "filosofia della retorica").32 Una delle forme più tipiche di questa contaminazione (o ibridazione) tra discorso critico, creativo e (auto)-pedagogico (fino ai limiti del non-sense) è quella che Ulmer chiama "mystory", una sorta di scrittura-collage che combina critica e espressione, privato e pubblico, svariati generi e forme del discorso, nel tentativo di cancellare i margini tra logica e immaginazione, tra cultura alta e cultura popolare, tra oralità e scrittura ecc. ecc., una forma che, nella sua concretizzazione cartacea, già prelude ad una piena realizzazione ipermediale.33

Se, come scrive Bolter, "l'ipertesto è la vendetta del testo sulla televisione" (nella televisione il testo è assorbito nella videoimmagine, in ipermedia l'immagine televisiva diventa viceversa parte del testo),34 e se ci avviamo veramente verso quell'interpolazione di ogni libro in tutti i libri preconizzata da Borges nella Biblioteca di Babele, è d'altra parte vero che la "protezione enciclopedica... del logocentrismo" (Derrida) è dura a cedere le armi. Tant'è che lo stesso Lanham, rifacendosi (oltre che alle tesi di Eric Havelock) appunto a Bolter, non esita a segnalare il paradosso che, nella polarizzazione tipica della cultura occidentale tra "discorso" e teoria o tra retorica e filosofia, "il testo elettronico affranca il mondo oral-retorico-drammatico-semiotico (sic), nello stesso modo in cui la stampa ha invece affrancato il suo opposto, letteral-filosofico-positivistico" e conclude dunque il suo ragionamento con l'affermazione che "il mondo orale ritorna in forma iperletterata".35 Più che una semplice fuoruscita dal "logocentrismo", come si vede il multimedia e l'ipertesto ci impongono un rimescolamento, una ri-messa in scena di tutte le sue (contraddittorie) componenti .

Il fatto è che allo stato attuale i sistemi ipertestuali (inclusa quella loro rappresentazione complessiva che è il WWW) sono, in questa fase di convulsa transizione e sperimentazione, il luogo di ogni ibridazione, cui le compartimentazioni spontanee del "discorso", istituzionali, specialistiche o basate sulla logica di mercato che siano, non possono mettere argine. In questo quadro abbiamo tanto più bisogno di cominciare a costruirci una nuova etica, un'etica adeguata all'ipertesto, come suggerisce Hillis Miller. Nel momento in cui "l'ipertesto rende di pubblico dominio che la generazione di significato nell'atto di lettura è un atto linguistico e non una passiva ricezione cognitiva", diventa necessario, per il nuovo e-letterato, critico e didatta, praticare e promuovere, liberamente, un'etica della responsabilità: "un ipertesto ci richiede di scegliere, ad ogni svolta" e, senza doverci affidare a significati pre-esistenti, ci richiede nondimeno di assumerci pienamente la responsabilità delle nostre scelte di scriteriati scrilettori.36 Finché, almeno, l'apparato tecnico-economico ci consenta questa scelta.

 

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VI. Per una comunità della formazione letteraria

Eccoci dunque ritornati al punto di partenza: le responsabilità e prospettive di noi educatori, se vogliamo farci promotori della nuova formazione e-letteraria. Il WWW ci suggerisce almeno due metafore portanti, due modelli cognitivi e/o pragmatici dell'esplorazione-costruzione del sapere: una è quella (postcoloniale) di un nomadismo senza frontiere; l'altra, quella (neocoloniale) di una mappatura sistematica dell'Impero dei segni. Illusione di abbandonarsi al flusso, la prima, di dedicarsi a un compito sensato (enciclopedico) la seconda. Ma queste due prospettive, (metafore emananti da un sistema post-coloniale e neo-coloniale come quello al cui centro si colloca l'impero tecnologico e la superpotenza massmediatica americana) si ibridizzano tra loro in una sorta di cartografia "nomadica" che, nel suo procedere "rizomatico", esplorativo e costruttivo, riconfigura virtualmente, ad ogni abbrivio, la mappa delle mappe nel suo insieme.

In questo ambito, pare necessario rassegnarsi al fatto che il testo letterario non è più (lo è mai stato?) conoscibile in vitro. Nella vetrina virtuale del WWW esso, anzi, si ibridizza sempre più, fluttuando in una costante e quasi simultanea ricontestualizzazione. Ma la presenza della letteratura e del letterario su Internet ha almeno un merito, "impedisce intanto di pensarlo come una sorta di autostrada trasparente su cui l'informazione viaggia avanti e indietro liberamente e senza interferenze o interruzioni, come un aperto segreto".37 L'interferenza (la guerriglia) retorica tipica del letterario è tanto più preziosa per la sopravvivenza in ambienti virtuali quanto più rischia di essere riassorbita nei suoi meccanismi e automatismi.

Come vedete il nostro discorso ci ha prevedibilmente portato molto lontano dall'italianistica. Cercando tuttavia di tirarne le fila, vorrei richiamare ancora una frase dalle già citate "lettere agli interconnessi" del Bollettino '900: "le tradizioni, il loro uso e la loro trasformazione, potrebbero anche complicarsi socialmente e geograficamente di là di ogni paventata omologazione..." nei nuovi ambienti della comunicazione e-letteraria. Credo di poter dire che il nostro progetto, il Decameron Web, ci ha consentito di verificare ampiamente questa "complicazione" (o spinta verso la complessità). Concepito nel quadro di una sperimentazione didattica, tentativo di ricontestualizzare nel nuovo ambiente del WWW, nello spazio-tempo virtuale e simultaneo, astorico o acronico della rete, un'opera rappresentativa di un'intera tradizione, come il Decameron, esso ci ha condotti a imbatterci direttamente nei problemi posti dalla nuova "forma" mentale e culturale.38

Al testo lineare, ben delimitato e isolato, discreto, concatenato in una sequenza canonica (fondamentalmente "storica" e "narrativa"), dei manuali tradizionali, viene così a sostituirsi un ipertesto modulare, collegato simultaneamente in multiple direzioni e molteplici ricontestualizzazioni sincroniche, nella cui "rappresentazione" a prevalere sono i campi magnetici "espressivi" e "cognitivi" emananti nel processo di lettura con i suoi tropismi plurimi e la sua intertestualità spontanea, dal corpus autoriale al canone al sistema letterario nel suo complesso, fino a includere i contesti più ampiamente intesi (ma sempre testuali e/o virtuali). Progettare in ipertesto significa anche, dunque, concepire e visualizzare una nuova dimensione o multidimensionalità "spazio-temporale" pienamente relativistica dell'opera ove la dimensione "storica" non viene del tutto abolita ma si riconfigura come sistema di relazioni. È un passo cognitivo che dobbiamo ancora compiere pienamente e di cui dobbiamo ancora valutare le conseguenze ma che avviene già, davanti a noi, nei soggetti del nuovo alfabetismo tecno-culturale.

Ora, mi pare di poter dire che l'universo (il sistema) letterario rappresenta un soggetto privilegiato per tale esperimento con la relatività: proprio in quanto universo intrinsecamente relativistico, governato da assenza di gravità (la "leggerezza" calviniana), luogo della simulazione, ma anche terreno di cultura di un ordine mentale legato vitalmente alla sperimentazione linguistica e "creativa". Concepito inizialmente come strumento didattico, archivio o memorizzazione del lavoro collettivo sul testo di Boccaccio, ossia come un'ibridazione di pratiche didattiche basate sulla stampa con nuove pratiche consentite dalla scrilettura elettronica, il Decameron Web si è presto trasformato in un nuovo luogo-ambiente (un piccolo laboratorio) di lavoro e di ricerca e soprattutto di sperimentazione di una nuova forma di apprendimento critico-dialogico (secondo un modello ermeneutico e comunicativo in parte almeno ispirato alle teorie di Mikhail Bakthin e alla loro diffusione/ricezione nel contesto americano).39 Nato dapprima come integrazione della componente tradizionale del corso, la lettura e discussione guidata (dal docente) del libro di Boccaccio, nella forma cartacea che noi tutti conosciamo e pratichiamo, il Decameron Web si è ben presto trasformato in un esperimento stimolante con la nuova, complessa "forma visiva" ("hypertext is, before anything else, a visual form", come ci rammenta Michael Joyce): a cominciare dalle nuove possibilità di percorrimento del testo offerte in ambiente elettronico al lettore attivo, fino all'attivazione piena dello "scrilettore" impegnato altrettanto attivamente nella costruzione di un apparato (ipertestuale) di comprensione, esegesi, commento, interpretazione del testo, approdando così ad un vero e proprio test di quella "convergenza tra teoria letteraria e tecnologia informatica" di cui parla ancora Landow nel suo Hypertext.

È troppo presto per tirare le somme di un'esperienza e di un esperimento ancora al suo stadio iniziale. Ma una cosa, generalizzando, pare di poter dire: la nuova comunità della formazione letteraria si prefigura oggi come una (piccola) comunità locale di scrilettori, la cui ubicazione geografica è relativamente meno importante della sua capacità di comunicare, a partire dalla propria esperienza di lettura, con altre comunità locali o nomadiche presenti in rete; è una microcomunità progettuale che adotta le nuove tecnologie affidandosi innanzitutto -- ed è questo il punctum crucis della mia argomentazione -- alla sperimentazione pedagogico-didattica, una sperimentazione in cui il docente, con le sue responsabilità di formatore, sia reciprocamente aperto anche alla revisione e reinvenzione del suo ruolo (che, per la nostra generazione di transizione, rimane quello di farsi "custodi" del messaggio storico del testo e delle sue passate ricezioni).40

All'inizio del mio intervento ho parlato di connettività e "visualizzazione avanzata" come delle caratteristiche fondamentali delle nuove tecnologie educative legate al WWW. Ovviamente non tutte le forme di computerizzazione interessano o sono profittevoli per tutte le discipline. E un testo letterario sembra rimanere qualitativamente diverso dal modello matematico di un edificio o di un "velivolo". Ma un'interessante analogia applicativa tra la visualizzazione avanzata e la simulazione di strutture descrittive, nelle discipline scientifiche fatta a partire da modelli matematici, potrebbe instaurarsi nelle discipline umanistiche con quella che si potrebbe definire la "visualizzazione" possibile, in ambiente elettronico, di testi letterari: ad esempio, di una struttura eminentemente architettonica come quella del Decameron su cui tra l'altro la critica e non solo quella di ascendenza strutturalistica si è abbondantemente (verbalmente) esercitata. Nel caso del Decameron ciò non potrebbe prescindere dalla auspicabile digitalizzazione del patrimonio figurativo, dall'illuminazione all'illustrazione alla stampa all'immagine cinematica in movimento, del cosiddetto Decameron visualizzato.41 Come è rappresentabile (oltre che leggibile) un testo? È questa una domanda che ha senso porsi nel nuovo medium.

Da una parte allora, i nuovi strumenti consentirebbero di valorizzare l'intrinseca "ipertestualità" del Decameron (estraibile o modellizzabile con gli strumenti offerti dal nuovo scriptorium, a partire dalle forme della sua "concretizzazione" storica, dal manoscritto al testo a stampa fino all'ipertesto elettronico), dall'altra consentirebbero di sperimentare un'inedita modellizzazione o visualizzazione dell'opera nella sua ricontestualizzazione elettronica, ad esempio secondo la prospettiva, cui si accennava prima, di una enciclopedia decameroniana (o meglio di un nodo enciclopedico generato a partire dal Decameron).42 Sono queste due delle direzioni in cui è possibile muoversi verso una o molteplici edizioni elettroniche del testo di Boccaccio, in cui le forme consolidate della scholarship (dalla filologia al commento all'ermeneutica del testo) si aprano alle forme nuove della rappresentazione ipertestuale, coinvolgendo gli studenti in una sperimentazione complessiva con i molteplici aspetti della storia (del trattamento) di un'opera (dalla sua costituzione o produzione primaria alla sua "pubblicazione", circolazione, interpretazione ecc.), in un esperimento con l'opera letteraria che è al contempo anche un esperimento con i nuovi (ibridi) strumenti della e-literacy.

Ampliando il discorso, credo che anche la comunità di ricerca possa trovare in questo lavoro "di base" le ragioni di una sua "ri-costituzione" interdisciplinare,43 nel collegamento reciproco delle pratiche della didattica in rete, intorno a progetti cioè che sviluppino al massimo le potenzialità educative e "formative", cooperative e democratiche del WWW. Non un modo di riprodurre in cyberspazio le consuete pratiche specialistiche o le separatezze istituzionali o gli elitismi o addirittura le consorterie "esoteriche" dell'accademia, né, al contrario, l'abbandonarsi ad una facile deriva anarchica post-modernista, ma una riforma concreta di queste pratiche, che faccia del WWW uno spazio (uno dei luoghi) di incrocio, confronto, in un nuovo dialogo aperto al contributo di chiunque abbia interesse a parteciparvi.

Se è difficile (e forse addirittura inane) prefigurare le forme che assumerà, tra spinte istituzionali e dinamiche di mercato, tra processi di omologazione e guerriglie "anti-logocentriche" questa utopica (nel senso letterale del termine) comunità allargata di scrilettori, è lecito pensare che essa andrà sorgendo a partire da micro-comunità progettuali e (territorialmente o non territorialmente) locali simili a quella del Decameron Web. La nuova italianistica non ha confini territoriali precostituiti e solo così può sopravvivere. L'auspicata nuova "comunità ipertestuale" è infatti quella in cui alla disciplina (o regola) della lettura (pratica esoterica ancora viva, fors'anche in piccoli gruppi di cultori di una tradizione testuale fluttuante tra le altre) si aggiunga anche l'avventura, il bricolage cognitivo della scrilettura, l'esplorazione delle potenzialità, ancora tutte da scoprire, del nuovo medium. Senza voler offrire una ricetta, dunque non ricerca e/o didattica, ma decisamente ricerca e didattica collegate insieme da un doppio nodo vitale, nei nuovi ambienti dell'apprendimento e della comunicazione letteraria. In questo quadro è tanto più essenziale dedicarsi a ciò che Dave Rogers chiama social work, un lavoro sociale "paraletterario" (paraeditoriale o paraccademico, come quello per intendersi del Bollettino '900) .

Per tornare alle metafore da cui abbiamo preso le mosse, credo che se una di esse (la mappatura) incarna lo spirito (o l'imperativo) enciclopedico che ancora sottende al progetto del sapere moderno e occidentalocentrico, l'altra (il nomadismo) ne consente tanto una critica quanto una più sottile riarticolazione. È, forse, nell'immagine modulare di un "enciclopedismo rizomatico" che entrambe queste metafore paiono se non armonizzarsi, almeno venire a fecondo, ibrido confronto. Ma, non va dimenticato, di metafore (o catacresi) si tratta: lo spazio, il luogo, il sito o i siti concreti di questo rinnovato spirito umanistico-cosmopolitico-enciclopedico -- in un contesto come quello in cui mi trovo ad operare, la parola enciclopedismo acquista anche un significato che rimanda al significato etimologico dell'espressione, enkyklios paideia, termine che esprime nella sua accezione originaria ciò che si intende oggi per "cultura generale" o anche "cultura di base" -- rimangono quelle che ho chiamato micro-comunità progettuali, aperte a ma non interamente riassorbite in una comunità globale in sé sfuggente e caotica; piuttosto i siti molteplici di una conversazione, di un continuo "negoziato" ove le culture, i linguaggi, le identità, le forme più diverse di espressione, le mentalità, le immaginazioni, si interfacciano, tentano di comunicare, vengono alle strette.

[Intervento tenuto al Convegno «Internet: Ricerca e/o Didattica», Bologna, Dipartimento di Italianistica, 27 novembre 1996; rivisto dall'autore nel 1999]

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