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"Al Barildim Gotfano".
Creatività linguistica e lingue immaginarie.
(Parol on line, aprile 1998)

di Paolo Albani

Tutte le nostre lingue sono
delle opere d'arte.

Jean-Jacques Rousseau

1. La creatività, intesa genericamente come capacità di produrre idee o cose nuove o forse meglio di trovare nuove relazioni tra le idee e le cose, insomma come "pensiero divergente" che rifiuta il codificato, assume sul piano linguistico diverse connotazioni che, in uno sforzo di estrema sintesi, possiamo raffigurare così:

 
                    creatività linguistica
                                |
                                |
                 ___________________________________      
                |                                   |
            nell'uso                        nella produzione
        del linguaggio                       di nuove entità
                |                             linguistiche
                |                                   |
        ________________                    ____________________
       |                |                  |                    |
libertà nella       capacità di        neologismi              lingue
combinazione        di produrre                              immaginarie
delle parole     un numero infinito
                      di frasi
 

Da un lato, come si vede, abbiamo evidenziato una soglia "inferiore" della creatività linguistica rappresentata dal semplice grado di "libertà" nella combinazione delle parole. Scrive a questo proposito Roman Jakobson:

Nella combinazione delle unità linguistiche esiste una scala ascendente di libertà. Nella combinazione dei tratti distintivi in fonemi, la libertà dei singoli parlanti è nulla; il codice ha già stabilito tutte le possibilità che possono essere utilizzate in una data lingua. La libertà di combinare i fonemi in parole è limitata, in quanto circoscritta alla situazione marginale della creazione di parole. Nel modellare le frasi sulle parole, il parlante è meno vincolato. Infine, nella combinazione delle frasi in periodi, si allenta l'azione delle regole sintattiche vincolanti e si dilata sostanzialmente, per ogni parlante, la libertà di creare nuovi contesti, sebbene, anche in questo caso, non si debbono sottovalutare i numerosi tipi di frasi stereotipate (Jakobson, 1966, p. 26).

Trattando dell'"aspetto creativo dell'uso del linguaggio" Noam Chomsky parla di una "creatività che crea le regole" (rule-changing creativity) la quale si esplica in deviazioni individuali la cui accumulazione può modificare appunto il sistema delle regole e di una "creatività governata da regole" (rule-governed creativity) grazie alla quale si generano di continuo nuove frasi mediante le regole ricorsive della grammatica. Mentre la prima forma di creatività dipende dalla esecuzione (o parole), Chomsky attribuisce la seconda alla nostra competenza linguistica (o langue), cioè a quel sistema di regole che è nella nostra mente e che costituisce il nostro sapere linguistico.

L'idea che una lingua riesca a produrre e riconoscere un numero potenzialmente infinito di frasi partendo da un numero finito di unità di base (monemi) e con un numero finito di regole sintattiche non è nuova, precisa Chomsky. Essa si trova già contenuta nell'affermazione di Wilhelm von Humboldt che una lingua "fa uso infinito di mezzi finiti" e prima ancora nella Grammaire générale et raisonné, contenant les fondemens de l'art de parler (Parigi, 1660) di Antoine Arnauld e di Claude Lancelot, grammatici di Port-Royal, dove il linguaggio è visto come una "meravigliosa invenzione capace di comporre con venticinque o trenta suoni un'infinita varietà di parole" (Chomsky, 1970).

Il passaggio dall'aspetto creativo dell'uso linguistico alla creatività artistica vera e propria è molto breve. Al riguardo Chomsky ricorda che secondo August Wilhelm Schlegel il linguaggio è "la più bella creazione della capacità poetica umana", "una poesia di tutto il genere umano, la quale è sempre in divenire, si trasforma e non è mai compiuta". Per Schlegel l'arte, come il linguaggio, ha un'illimitata potenzialità espressiva (Chomsky, 1969, p. 58).

Allo stesso modo infinite sono le potenzialità nascoste nelle opere letterarie - esistenti e ancora da farsi - esplorate, in epoca recente, dai promotori (fra i più noti: Raymond Queneau, Georges Perec, Italo Calvino) dell'esperienza dell'OuLiPo ("Ouvroir de Littérature Potentielle") il cui "sforzo creativo si concentra principalmente su tutti gli aspetti formali della letteratura: restrizioni, programmi o strutture alfabetici, consonantici, vocalici, sillabici, fonetici, grafici, prosodici, rimici, ritmici e numerici" (Le Lionnais, 1985, pp. 22-23).

Il linguaggio - sia quello standard, comune che quello poetico, "deviante" ed originale - è un sistema di segni regolato da un codice che non si dà una volta per tutte, che non è una matrice chiusa, statica, bensì aperta, suscettibile di variare in relazione, diciamo così, ai "bisogni" individuati. Se i bisogni cambiano, il codice si ristruttura adeguandosi alle nuove necessità. Si prenda ad esempio le "parole in libertà" dei futuristi: esse sono lo strumento linguistico per tradurre in modo efficace una nuova sensibilità formatasi sull'onda delle scoperte scientifiche come (l'elenco è di Filippo Tommaso Marinetti) il telegrafo, il telefono, il grammofono, il treno, la bicicletta, la motocicletta, l'automobile, il transatlantico, il dirigibile, l'aeroplano, il cinematografo ed il grande quotidiano, "sintesi di una giornata del mondo". È l'affermarsi di un nuovo modo nuovo di sentire il mondo che alimenta e fa esplodere nei futuristi l'esigenza e l'urgenza di un nuovo linguaggio (per alcuni spunti sulla creatività nella moderna teoria linguistica: De Mauro, 1990, pp. 46-53).

Dall'altro lato, abbiamo tracciato una soglia "superiore" della creatività linguistica identificabile non più nella sfera dell'uso del linguaggio, bensì in quella della produzione di nuove entità linguistiche.

In questo caso sembra utile distinguere fra un primo livello che riguarda la creazione di "neologismi", cioè di parole che veicolano un nuovo significato, ed un secondo livello che si cimenta con l'invenzione di veri e propri sistemi strutturati di segni ossia di lingue "artificiali" o "immaginarie" che dir si voglia.

Dentro i meccanismi affascinanti della fabbrica del linguaggio, l'"onomatopea", cioè in senso strettamente etimologico la "creazione di parole", designa il più importante di tutti i processi di evoluzione linguistica dato che la maggioranza delle parole esistenti in una qualsiasi lingua è fatta di parole "coniate", di forme - come scrive Mario Pei - che in un modo o in un altro sono state create, ampliate, abbreviate, combinate e ricombinate per soddisfare la necessità di esprimere nuovi significati (Pei, 1952, p. 102).

Com'è noto i procedimenti usati per la creazione di nuove parole sono molteplici: si va dalla derivazione, aggiungendo ad una radice già esistente dei prefissi e suffissi (così "militare" diventa "militarismo", "antimilitare"), alla composizione (sul tipo di "ferrovia", "paraurti", ecc.), dal mutamento funzionale, attribuendo un significato nuovo a termini già esistenti nella lingua (per esempio: "transatlantico" nel senso di "sala del palazzo di Montecitorio") all'analogia, fondata sulla parziale imitazione di forme esistenti (il plurale della parola inglese fox, "volpe", era vixen, ma poi per analogia è diventato foxes).

A proposito dell'analogia, che riveste un ruolo importante nel cambiamento linguistico, Ferdinand de Saussure nota che in ogni lingua vi sono parole produttive, cioè capaci di "generarne altre a seconda che esse stesse siano più o meno decomponibili", e parole sterili, improduttive. In cinese, aggiunge Saussure, la maggior parte delle parole sono indecomponibili; al contrario, in una lingua artificiale, sono quasi tutte analizzabili; così, conclude il linguista svizzero, "un esperantista ha piena libertà di costruire su una radice data delle nuove parole" (Saussure, 1986, p. 201).

Strani neologismi sono le parole-valigia (in inglese: "portmanteau word") inventate da Lewis Carroll, l'autore di Alice nel paese delle meraviglie (1865), unità lessicali ottenute saldando la testa di una parola con la coda di un'altra. Così "agiluto" vuol dire "agile" e "lutulento", cioè fangoso, come "smog" è il frutto dell'unione di "smoke" e "fog". Recentemente Umberto Eco, stimolato da un lavoro sul Finnegans Wake di James Joyce, ha inventato i "finneghismi", parole composte di cui si offre una bizzarra definizione: "ponyclinico" = ospedale per equini; "depistemologo" = teorico radicale della serendipità; "autograal" = posto di ristoro per Cavalieri della Tavola Rotonda; "oromogio" = swatch che suona solo le ore tristi (Eco, 1995 e 1995a).

I motivi che spingono alla coniazione di nuove parole nell'ambito delle lingue storico-naturali sono svariati. Fra i fenomeni d'invenzione linguistica possiamo ricordare quelli dovuti a tabù: in alcune popolazioni primitive dell'Australia e dell'America, dopo la morte di una certa persona con un nome che ricorda oggetti d'uso comune o di animali, il nome di quell'oggetto viene cambiato. Anche l'identità sociale è causa di trasformazioni linguistiche (si pensi ad esempio ai gerghi e alle lingue speciali, comprese quelle inventate dai bambini e dagli alienati mentali) oppure il contatto fra popolazioni diverse, come accade per i pidgin che presentano a volte un lessico ed una fonetica artificiali (Bausani, 1974, pp. 11-49). Per non parlare poi dell'inventiva linguistica nel campo poetico-letterario dove il neologismo è capace di condensare in un segno unico tutto un sistema descrittivo (Riffaterre, 1989).

È interessante notare come alcuni neologismi siano entrati nel linguaggio comune. Un solo esempio. Nell'operetta El joven Telémaco (1886) dello scrittore spagnolo Eusebio Blasco (1844-1903), il coro canta questo ritornello composto di parole senza senso:

Suripanta, la suripanta, / maqui, trunqui da somatén. / Sun fáribum, sun fáriben, / maca trúpitem sangasinem. / Eri sunqui, / maca trunqui, / suripantén. / ¡ Suripén! / Suripanta, la suripanta, / melitonimen. ¡Son pen!

In seguito la parola "suripanta" è entrata nel vocabolario spagnolo, ad indicare inizialmente le coriste di teatro e poi le donne di facili costumi.

2. Oltre al "neologismo", abbiamo posto nella "soglia superiore" della creatività linguistica l'invenzione di "lingue immaginarie". Qui entriamo in quella branca abbastanza nuova della linguistica che Sylvain Auroux ed altri ricercatori francesi hanno chiamato "linguistica fantastica" (Auroux et al., 1985), disciplina che si occupa di "fantalingue", di lingue utopiche, universali, perfette, filosofiche, ludiche, ecc. ovvero di quell'insieme, non omogeneo, di esperienze linguistiche tenute fuori o marginalizzate dall'ambito delle discussioni ufficiali della "società dei linguisti" (su questo filone di ricerca esiste già un'interessante letteratura, ad esempio: Bausani, 1974; Yaguello, 1984; Pellerey, 1992; Eco, 1993; Albani e Buonarroti, 1994; Marrone, 1995). Vicina alle problematiche della "linguistica fantastica" e per molti aspetti ad essa intrecciata è l'"interlinguistica", disciplina che studia la tipologia e la storia delle lingue internazionali, artificiali e non, ma che s'interessa anche ad alcuni capitoli rilevanti della linguistica applicata, come i pidginismi e i creolismi, e non rifugge nemmeno qualche attenzione verso i linguaggi gergali segreti, mistici, simbolici (uno dei più famosi manuali d'interlinguistica è: Monnerot-Dumaine, 1960).

Cosa s'intende per "lingua immaginaria"?

In una prima approssimazione possiamo dire che si tratta di lingue "fittizie", di lingue cioè non naturali, dove l'attributo "naturale" sta ad indicare una lingua formatasi attraverso un processo storico ben determinato ed il cui apprendimento avviene per trasmissione orale dai genitori e dall'ambiente circostante. Per alcuni studiosi la differenza fra lingue naturali ed artificiali risiede nel fatto che le prime sono il risultato di una "produzione incosciente", mentre le seconde scaturiscono da un "atto cosciente" (Szilágyi, 1931). Comunque sia possiamo definire "immaginaria" ogni lingua di tipo artificiale, frutto dell'elaborazione a tavolino di una o più persone, non necessariamente appartenenti alla categoria dei "linguisti di professione" (gli inventori di lingue ausiliarie internazionali, tipo Esperanto o Volapük, sono ad esempio, eccetto qualche raro caso, come quello del linguista danese Otto Jespersen, per la maggior parte medici, ingegneri, matematici, sacerdoti, avvocati, maestri di scuola, poveri cristi, ecc.).

Sulla base di un criterio molto generale di funzionalità, le lingue immaginarie possono essere suddivise in due grandi aeree. Da un lato abbiamo quelle il cui fine, di carattere sacro, è "comunicare" con il divino o comunque di dar voce ad un mondo spirituale non rappresentabile con il linguaggio ordinario: è il caso delle glossolalie religiose, delle lingue iniziatiche, magiche, divinatorie, ecc.. Il "balaibalan", lingua segreta a carattere artificiale creata negli ambienti mistici islamici non prima del XV secolo, è secondo il Bausani "la prima e vera lingua inventata del mondo colto (a parte le lingue segrete primitive)" (Bausani, 1974, pp. 89-97). Dall'altro si collocano quelle il cui fine è invece di carattere non sacro, tipologia che comprende da un lato i progetti per la comunicazione a scopo sociale (oltre alle lingue ausiliarie internazionali "a priori", "a posteriori" e "miste", si pensi ai linguaggi logico-matematici, a quelli gestuali, dei segnali, ai linguaggi tattili, abbreviati, ai gerghi, alle crittografie, ecc.) e dall'altro le sperimentazioni più o meno artistiche motivate da un puro gioco espressivo.

In via preliminare bisogna dire che i procedimenti qualificanti l'invenzione di lingue immaginarie, soprattutto in ambito artistico-letterario, risentono quasi sempre dell'influenza delle teorie linguistiche dell'epoca storica cui appartengono. Basti ricordare a questo proposito come nella lingua di Sevarambia, "la più piacevole e la più pura del mondo", che combina elementi del persiano con le antiche parlate locali ed ha un'intonazione simile a quella del greco o del latino, descritta da Denis Vairasse d'Alais nel romanzo Storia dei Sevarambia del 1675, si rifletta in qualche modo il razionalismo dei lavori dei grammatici di Port-Royal, o come la lingua Vril, affine alle lingue Ariane o Indogermaniche, ideata dalla fantasia dello scrittore romantico Edward G. Bulwer Lytton nel romanzo La razza futura (1871) sia modellata sulla base delle riflessioni linguistiche contenute nel libro La scienza del linguaggio (1863) del sanscritista e comparatista Max Müller. Senza dimenticare quanto profondo sia il fascino esercitato sulle lingue inventate nella fantascienza, da un lato, dalla cosiddetta "ipotesi di Sapir-Whorf" secondo cui il nostro modo di percepire e di pensare il mondo è profondamente influenzato dalla struttura del linguaggio con cui ci esprimiamo, dall'altro dalla "Semantica Generale" di Alfred Korzybski la cui idea fondamentale è che "per giungere correttamente a comprendere il significato [delle cose], occorre tenere conto del sistema nervoso e percettivo che gli fa da filtro", o dalle teorie linguistiche di Noam Chomsky. Per la fantascienza, l'intreccio fra teorie linguistiche e creazione di lingue "aliene" è ancora più forte poiché molti degli scrittori di science fiction sono al tempo stesso dei linguisti (si pensi ad esempio ad Ursula K. Le Guin oppure a Suzette Haden Elgin; lo stesso Mario Pei è autore di alcuni racconti di fantascienza) o comunque si sono avvalsi della collaborazione di studiosi del linguaggio.

3. Al di là di una generica tendenza alla semplificazione - grammaticale e morfologica - nei confronti delle lingue naturali, sovraccariche di regole e di eccezioni, di tranelli e di ambiguità, le lingue immaginarie presentano dal punto di vista della "creatività", ovvero della disponibilità all'innovazione, manipolazione e deformazione delle forme codificate, alcuni caratteri ben identificabili.

Da un lato, l'invenzione linguistica può limitarsi alla creazione di un nuovo lessico o di una nuova sintassi lasciando tuttavia inalterata la morfologia della lingua naturale: è il caso ad esempio dei gerghi o di alcune lingue segrete.

Nel racconto dello scrittore svizzero Peter Bichsel Un tavolo è un tavolo (1969) un vecchio inventa un proprio linguaggio semplicemente cambiando di significato alle parole, comincia cioè a chiamare il letto "quadro", la sedia "sveglia", il tavolo "tappeto", ecc., così che:

La mattina il vecchio uomo rimaneva a lungo a quadro, alle nove suonava l'album delle fotografie, l'uomo si alzava e si metteva sull'armadio perché non gli gelassero i piedi, poi prendeva fuori i vestiti dal giornale, si vestiva, guardava la sedia alla parete, si sedeva sulla sveglia al tappetto e sfogliava lo specchio finché non trovava il tavolo della sua mamma (Bichsel, 1986, p. 29).

Imparati i nuovi termini della sua lingua personale, l'uomo dimentica quelli giusti. Alla fine, non riesce più a capire la gente e per questo finisce per non dire più nulla.

Rientra in questa tipologia anche la cosiddetta "lingua ionadattica" inventata nel Seicento, oggetto di relazioni all'Accademia della Crusca, dove ogni parola è sostituita con altre che cominciano con le stesse lettere: così "gote rosse" diventa "gomita rotte", mentre "vi riverisco di tutto cuore" si trasforma in "vi rivesto di tutto cuoio", ecc.

Dall'altro, l'elemento peculiare di una lingua immaginaria può essere dato dalla creazione di una nuova morfologia e di un nuovo lessico (non sempre decriptabile), pur rimanendo invariato il patrimonio fonetico del linguaggio naturale dell'inventore. Si pensi ad esempio alle lingue ausiliarie internazionali "naturaliste" (cioè a quelle lingue artificiali progettate per la comunicazione mondiale, come l'"Occidental" o l'"Interlingua", che sono il più possibile simili alle lingue esistenti) oppure, in campo letterario, alla lingua degli Antipodi, usata - insieme ad altre completamente inventate - da Panurge nel capitolo IX del Libro secondo del Gargantua e Pantagruele (1532-1564) di François Rabelais, che si manifesta con frasi stranulate come le seguenti:

Al barildim gotfano dech min brin alabo dordin falbroth ringuam albaras. Nin porth zadilkin almucathim milko prim al elmin enthoth dal heben ensouim: kuth im al dim alkatim nim broth dechoth porth min michas im endoth, pruch dal maisoulum hol moth dansririm lupaldas im voldemoth.

che forse nascondono qualche procedimento crittografico. Emile Pons ha notato che l'espressione "ringuam albaras" è una sorta di anagramma di "linguam ara(l)bas" ed in effetti, secondo lo studioso francese, molte delle parole inventate da Rabelais per la lingua degli Antipodi sono di origine araba (Pons, 1931).

Per questo tipo d'invenzioni, che si presentano ad una prima lettura come lingue "confuse", "inarticolate", portatrici sul piano semantico di una "nebulosa di contenuto", Etienne Souriau ha proposto una triplice suddivisione.

In primo luogo egli considera le lingue apparentemente prive di senso, ma spacciate per una lingua straniera esistente: è il caso dello pseudo-turco usato da Molière nel Borghese gentiluomo (1670). Dietro il borbottìo incomprensibile fa capolino una lingua di riferimento di cui si mima l'apparato fonèmico. In secondo luogo Souriau seleziona le parlate artificiali risultanti da una deformazione sistematica del linguaggio istituzionale citando a questo proposito il francese bistrattato, scritto come si parla, in Zazie nel metró (1956) di Raymond Queneau dove compaiono un "pentasillabo monofasico" come "quelkaidettóra" ed altre espressioni quali "keccè?", "ícchett-nunk", "seleddàta", "bainàit", "blucínz", "plèd" (del resto è noto che Queneau nel 1937 lavorò ad una riforma in senso ortografico del francese, per farlo aderire alla lingua realmente parlata). Nella terza sezione infine Souriau mette le lingue composte da parole totalmente inventate, formate da un insieme di misteriosi "hapax", sottolineando come queste parole "a senso poco determinato" possiedono una straordinaria efficacia dovuta sia alla loro capacità di evocare "fantasiose associazioni" (fonosimboliche) sia alla loro bellezza estetica, alla loro forma audio-visiva (Souriau, 1965).

La possibilità di disambiguare il contenuto di queste lingue incomprensibili, che trasgrediscono alle regole del linguaggio convenzionale, qualche volta è offerta dalle spiegazioni o da alcuni accorgimenti escogitati dall'inventore che può:

a) fornire lui stesso gli elementi base della struttura lessico-grammaticale della lingua fittizia;

b) esibire direttamente una "traduzione immaginaria" del testo in lingua artificiale, senza tuttavia dare ulteriori specificazioni;

c) suggerire al lettore una qualche ipotetica direzione di senso sulla base del contesto narrativo in cui l'esempio di "lingua immaginaria" s'inserisce (ad esempio una frase incomprensibile acquista sapori e connotati diversi - esoterici o guerreschi - a seconda che sia pronunciata da una strega mentre prepara un filtro magico oppure da una tribù di scimmie primitive durante una battuta di caccia);

d) disseminare nel testo alcune "parole chiave" che fungono da "marcatori di topic" mettendo così in grado il lettore di avanzare alcune ipotesi interpretative;

e) avvalersi di codici non verbali (come quello mimico-gestuale, decisivo per riempire di senso il "finto inglese" o il "finto francese", varianti di quel vulcanico pastiche linguistico che è il "grammelot" di Dario Fo).

Va detto, comunque, che il "gioco dell'interpretazione", cui gli esempi di lingue immaginarie invogliano, non si esaurisce nel semplice fatto di trovare l'etimo autentico di una parola, per altro inventata, ma investe "il continuo processo dinamico della mente che si muove nella rete associativa delle parole alla scoperta di sensi sempre nuovi e diversi e che in tal modo conduce al sapere". L'"inafferrabilità semantica" di molti testi di lingue immaginarie, fondata sull'artificio di dire e non dire, di mostrare e nascondere allo stesso tempo, ha lo scopo di stimolare la curiosità e l'interesse del lettore e di provocare al tempo stesso quell'attività esplorativa della mente che è il presupposto di ogni saggezza. In altri termini, quello che conta non è l'interpretazione che si dà di una frase "inventata", ma il procedimento associativo, il mettere insieme elementi disparati e imprevisti (Marrone, 1995, p. 51 e p. 184).

Nell'ambito di questa particolare tipologia di lingue immaginarie il gioco inventivo si sbizzarisce in una gamma di trovate ingegnose, di sperimentazioni surreali, a volte esilaranti come testimonia il megapatagonese, lingua palindroma (cioè che può essere letta da sinistra e destra e viceversa) degli abitanti di Megapatagonia, arcipelago con capitale Sirap, città agli antipodi di Paris, descritta da Restif de la Bretonne nel romanzo La scoperta australe del 1781, che altro non è se non il francese al contrario.

Vi è infine un'invenzione linguistica che cerca di trascendere del tutto dalle lingue naturali con il risultato di costruire, non soltanto nuove regole grammaticali e sintattiche, ma anche un nuovo sistema di segni e quindi un nuovo lessico: ne sono un esempio le cosiddette "lingue a priori", come le pasigrafie (empiriche e filosofiche), cioè lingue esclusivamente scritte, composte di segni non pronunciabili. Pensate per rimediare all'imperfezione delle lingue naturali, le pasigrafie (come del resto tutte le cosiddette "lingue perfette") utilizzano un "dizionario assoluto", cioè un repertorio limitato di termini, selezionati arbitrariamente in modo da rappresentare tutte le aree del sapere, dizionario che si basa su un "lessico chiuso", ovvero finito e immutabile, e su un "codice rigido", cioè su un'associazione ben definita tra singoli contenuti e singole espressioni che impedisce la variazione di significato di ogni termine (Pellerey, 1992, p. 268).

Altri esempi di "lingue a priori" sono i sistemi di scrittura pittografica, le lingue basate sulla notazione musicale, gli alfabeti inventati come quelli Morse e Braille, le "icone emotive", faccine elettroniche che, unite al testo di un messaggio inviato sulla rete INTERNET, lo arricchiscono di emotività e significati, ecc.

Si pensi ancora ai segni enigmatici del "marziano" e dell'"ultramarziano" inventati verso la fine dell'Ottocento dalla medium ginevrina di origine ungherese Hélène Smith il cui caso di "sonnambulismo con glossolalia" fu studiato da eminenti psicologi ed anche da Ferdinand de Saussure (Flournoy, 1985; Lepschy, 1989). Oppure al finto "sanscrito", lingua inventata verso il 1835 dall'architetto francese Henry Legrand, basata su due alfabeti differenti, di cui uno, composto di 352 caratteri, ispirato all'arabo, mentre l'altro, comprendente 100 caratteri, alla scrittura sànscrita; Legrand lascia una serie di diari, in tutto 45 volumi con più di 15.000 pagine, ognuno redatto in questo cosiddetto "sànscrito" che funziona da lingua iniziatica per i membri (tutte donne) di una setta segreta, dedita al culto di Juana, una sua amante scomparsa. Solo dopo quarant'anni di mistero, questi diari furono decriptati dal poeta francese Pierre Louÿs.

Sono grafie inusitate, vagamente arabeggianti, anche le "Tengwar" e le "Angerthas", lettere dei due alfabeti degli Elfi, una razza alta e bella, con la pelle chiara, gli occhi grigi e la capigliatura bruna, di cui riferisce lo scrittore inglese John Ronald Tolkien nella sua trilologia Il Signore degli Anelli (1954-1955).

Ed ancora. La lingua dei Klingon, abitanti del pianeta Kling facente parte dell'Universo di Star Trek, invenzione del linguista statunitense Marc Okrand, autore di un Klingon Dictionary (1985), è una lingua completa di regole grammaticali e di vocabolario, il cui alfabeto si compone di 25 segni dall'aspetto cuneiforme, vagamente somiglianti agli ideogrammi dei sumèri. A Flourtown nella Pennsylvania (Usa) esiste un "Klingon Language Institute" che ha circa 200 membri e pubblica la rivista HolQeD che in klingoniano significa "Linguistica". Nella lingua dei Klingon è stata tradotta la Bibbia con qualche difficoltà per concetti come "Spirito santo" o "Resurrezione".

Fra le pieghe di queste tre tipologie d'invenzione linguistica, sommariamente descritte, si dipana una miriade di sfumature, di possibili varianti, d'intrecci e contaminazioni linguistiche in cui trovano spazio proposte eccentriche e banali. Si va dalle semplici riforme ortografiche, scritture abbreviate, linguaggi fischiati e tambureggiati, alle curiose scritture geroglifiche come quella elaborata all'inizio dell'Ottocento dall'ufficiale superiore francese Camille di Chesnier-Duchêne dove il rebus gioca un ruolo importante; dalle pittografie senza contenuto linguistico come quella inventata da Max Ernst o da Vasilij Kandinskij, alle "tecniche linguistiche" di tipo ludico come quella usata da Mary Godolphin, pseudonimo di una scrittrice inglese, Lucy Aikin, vissuta a cavallo fra Settecento e Ottocento, antesignana dei giochi oulipiani, la quale riscrive il Robinson Crusoe esclusivamente con parole monosillabiche; per non dire poi delle contro-scritture o scritture di parole sconosciute stilate in una grafia incomprensibile come quelle uscite dalla fantasia di Pablo Picasso o dal disegnatore e pittore belga Christian Dotremont che ha chiamato le sue creazioni verbo-figurative "logogrammi".

4. Nell'"immaginario linguistico" che si manifesta a volte attraverso le teorizzazioni più strane - dal "delirio etimologico" alla ricerca di una "mitica lingua ideale" - o gli eccessi più incontrollati come nelle glossolalie religiose e nelle farneticazioni dei malati di mente, si addensano le proiezioni di utopiche speranze, le chimere di mondi perfettibili, gli echi ed i fantasmi di appetiti culturali insoddisfatti. Tutto ciò fa delle lingue immaginarie - una sorta di "lingue simulate di mondi virtuali" - un formidabile osservatorio su "vizi & virtù" della comunicazione umana, una lente utile a farci comprendere meglio le stesse lingue naturali, le loro perversioni, tic e potenzialità nascoste e di conseguenza a farci sentire più liberi perché, come scrive Walter E. Meyers, "uno dei modi con cui possiamo difendere ed ampliare le nostre libertà è scoprire come funziona il linguaggio" (Meyers, 1980, p. 209).

Sull'importanza delle lingue immaginarie bisogna poi considerare un altro aspetto, messo in luce da Umberto Eco nella prefazione al libro di Pellerey (1992) con un richiamo alla funzione positiva che può giocare la "serendipità", cioè il caso. Nonostante i risultati fallimentari sul piano dell'adozione e della diffusione, i progetti di lingua perfetta, scrive Eco, hanno "aperto, spesso all'insaputa dei suoi autori, nuove e impreviste strade al pensiero filosofico e scientifico", aggiungendo: "Senza secoli di discussione sulle lingue perfette non avremmo le tassonomie delle scienze naturali, la logica simbolica, il linguaggio dei calcolatori, per non dire dell'influsso di questi progetti sulle ricerche sulle origini del linguaggio, sui ceppi linguistici, sulla individualità di una grammatica universale" (Eco, 1992, pp. IX-X). Senza dimenticare, come osserva ancora Eco in un altro saggio, che il fallimento delle utopie della lingua filosofica a priori ha prodotto nel Paese dei Romanzi testi dotati di "qualche virtù poetica o di qualche energia visionaria" (Eco, 1995b, p. 61).

I motivi che stanno alla base della creazione di lingue immaginarie sono prevalentemente di tipo religioso, filosofico-scientifico e pratico, quest'ultimi inerenti alla crescita degli scambi commerciali internazionali. Non di rado essi sono attraversati da uno slancio venato di utopismo: l'utopia di una lingua perfetta, "priva di falsità ed errori", capace di rispecchiare la struttura logica della mente umana, l'utopia di una religione che unifichi i popoli della terra, di una fratellanza universale che renda gli uomini più buoni e solidali fra loro, l'utopia di un mondo futuro che si auspica migliore di quello esistente.

Spesso la costruzione di una "nuova lingua" racchiude in sé queste sollecitazioni utopiche. È il caso della lingua di Utopia, mitica isola descritta da Thomas More nel suo libro del 1516: in una repubblica dove regna la democrazia e la tolleranza, specchio di un mondo perfetto dove la guerra, la pena di morte e la proprietà privata sono i mali peggiori da evitare, è giocoforza che anche il linguaggio rifletta tanta perfezione. Ed infatti l'alfabeto usato nell'isola è "utopico", vagamente simile al persiano, a quei tempi lingua sapienziale per eccellenza.

Lo stesso Zamenhof, inventore di una lingua veicolare neutrale come l'Esperanto, è autore di un pamphlet pubblicato anonimamente in favore di una dottrina - chiamata "homaranismo" - ispirata alla fratellanza universale.

A fianco di queste componenti, ne esiste poi un'altra che illumina in modo forte i motivi posti a sostegno dell'invenzione di una lingua ed è la componente ludica che fa sì che il linguaggio sia assunto come un gioco, che ogni fonema, lettera o parola siano sradicati dal loro alveo abitudinario, scontato, e trasformati, seguendo lo stesso magico processo con cui una vecchia scopa malandata diventa nelle mani di un bambino uno splendido destriero, in pezzi di un meccano fantastico, in giocattoli per viaggiare in mondi irreali.

È sufficiente una parola inconsueta, misteriosa, sconosciuta ai lessici convenzionali, per aprire il rubinetto della nostra fantasia, magari una parola trovata per caso, come quella - "MOOREEFFOC" - che Charles Dickens, in una cupa giornata londinese, scorge d'improvviso riflessa sulla porta a vetri di un caffè. All'apparizione di quella parola dal suono bizzarro e inatteso, lo scrittore si estranea dalla realtà e comincia a fantasticare lasciandosi alle spalle l'uggia nebbiosa dell'inverno inglese. Soltanto in un secondo tempo, egli si rende conto che "MOOREEFFOC" non è altro che l'insegna "COFFEEROOM", cioè "sala da caffè", letta al contrario.

Se poi le parole inventate assumono la forma di una poesia "metasemantica", come quella intitolata "Il giorno ad urlapicchio" di Fosco Maraini, che recita così:

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi

col cielo dagro e un fònzero gongruto

ci son meriggi gnàlidi e budriosi

che plògidan sul mondo infrangelluto;

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi

un giorno tutto gnacchi e timparlini

le nuvole buzzìlano, i bernecchi

ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio

un giorno carmidioso e prodigiero,

è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio

in cui m'hai detto "t'amo per davvero".

allora l'effetto di spaesamento, di sorpresa è davvero travolgente e tale da indurre il lettore ad un "orgasmo interpretativo".

Introducendo le sue Fànfole Maraini parla di "valori cromatici e tattili, dei sapori e degli umori, della pelle e dei baci, dell'ombra e del profumo delle parole" evocando l'esistenza di "parole tonde e gialle, lunghe e calde, voluttuose e lisce", oppure "polverose e bigie, sfilacciate e verdi", "a pallini e salate", "massicce, fredde, nerastre, indigeste, angosciose". La parola è assimilata ad "un giocattolo, un fuoco d'artifizio" o meglio ancora ad "una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendone fiumi di sapori e delizie" (Maraini, 1994, pp. 16-17).

Ecco, in questa "libidinosa potenzialità espressiva del linguaggio" risiede uno dei terreni più fertili per la creazione di lingue immaginarie, specie in campo artistico. Possiamo allora cercare di riassumere l'humus, il genio dello spiritello ludico che accomuna molti degli inventori di lingue immaginarie con il verso finale di una famosa poesia del Palazzeschi futurista:

e lasciatemi divertire

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