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Fernanda Pivano e la letteratura americana del '900
di Vanessa Chizzini (Parol on-line, giugno 1998)

1. Francis Scott Fitzgerald
2. Ernest Hemingway
3. L'esperienza "beat"

Il metodo critico di Fernanda Pivano, esercitato dall'inizio degli anni Quaranta su parte importante della letteratura americana del '900 e qui illustrato attraverso gli esempi di Fitzgerald, di Hemingway e degli scrittori cosiddetti beat, si è delineato come metodo socio-biografico in cui la testimonianza diretta e la collaborazione con gli autori hanno avuto un ruolo sempre più centrale.

1. Francis Scott Fitzgerald

Il ricorso al contesto sociale come elemento necessario per spiegare l'opera di uno scrittore si dimostra particolarmente evidente nel caso di Fitzgerald, che pure Fernanda Pivano non ha avuto modo di conoscere di persona. Fitzgerald è stato infatti definito lo scrittore, il cantore dell'età del jazz, vale a dire di quegli anni Venti che ne presero il nome proprio dal titolo di una sua raccolta di racconti del 1922, Tales of the Jazz Age. Così, il tempo di Fitzgerald fu "il decennio che va dall'armistizio alla grande 'crisi'; il decennio del dopoguerra col proibizionismo e il suffragio femminile, col dilagare dell'automobile e della radio, con la 'grande paura rossa' e il boom capitalistico, con l'americanismo a oltranza e il ripudio delle tradizioni letterarie: il decennio di tutte le proteste e di tutte le rivolte, delle utopie più ottimistiche e delle delusioni più spietate." [F. Pivano, La balena bianca e altri miti, Milano, il Saggiatore, 1995, p. 305 (prima edizione Milano, Mondadori, 1961)]. "Il successo economico, la ricchezza, erano ormai metri di giudizio. Non c'era posto per i poveri, non c'era posto per i deboli, non c'era posto per i falliti nell'America di Ford. Poeti e scrittori, critici e romanzieri, giornalisti e produttori, valevano soltanto se guadagnavano quattrini. Peggio per loro se non ce la facevano: voleva dire che erano cattivi scrittori, cattivi artisti. Chi non aveva quattrini non aveva credito, e chi non aveva credito non aveva quattrini. Era un circolo vizioso e peggio per chi ci restava intanagliato dentro." [Ibidem, pp. 316-317]. "E' incredibile come tutti facessero quattrini in quegli anni in America, e come tutti si divertissero e fossero contenti. Dopo l'isterismo anti-rosso, l'isterismo del sesso e via via tutti gli altri, l'America era invasa dall'isterismo dei quattrini. Il rialzo della General Motors, il 4 marzo 1928, fu festeggiato come portatore di nuove gioie. In realtà fu l'inizio dello sfacelo che travolse l'America l'anno successivo. L'utopia del benessere per tutti era crollata. L'età del jazz era finita." [Ibidem, p. 320].

Fitzgerald è stato sicuramente lo scrittore dell'età del jazz, ha sicuramente raccontato nei suoi libri quel periodo e quell'atmosfera, e su tutto Fernanda Pivano sottolinea proprio l'isterismo dei soldi, che torna in quasi tutti i suoi romanzi, ma anche l'isterismo del sesso, ad esempio in This Side of Paradise, con la voglia di liberarsi dal conformismo e dall'ipocrisia vittoriani. Non si trattava di mettere in discussione questo. Quello che per lei era da contestare era l'opinione che Fitzgerald fosse solo questo, che Fitzgerald fosse solo uno scrittore di costume. Ad alimentare quest'idea, del resto, era stata la stessa vita che Fitzgerald aveva condotto con la moglie Zelda, la loro leggendaria vita di lusso che aveva dettato la moda specialmente in quei primi anni Venti. La definizione di Fitzgerald scrittore dell'età del jazz era legata al fatto che lui dell'età del jazz nella vita, nello stile di vita, era stato il re e l'eroe. Il contesto sociale era allora necessario per capire, seppur a grandi linee, in che cosa fosse consistita quest'età del jazz che tanta importanza aveva avuto nella sua vita e nei suoi libri. Ma poi si trattava di vedere come lui fosse andato a inserirsi in questo contesto, come lo avesse vissuto. Fitzgerald è stato esemplare anche in questo, nell'analisi costante che fece della sua vita e delle cose che avevano avuto importanza per lui, di quelle che lo avevano segnato, del suo modo di guardare alle cose e di comportarsi. Per Fernanda Pivano si trattava di seguirlo, non tanto di interpretare da dati "oggettivi" ma piuttosto di presentare gli avvenimenti della sua vita per come lui li aveva vissuti, ripercorrerli accanto a lui, vedere la grandezza delle cose al di là delle proporzioni esteriori.

Il contesto sociale, quella parte del contesto sociale pertinente a un autore e ai suoi libri, è la messa a fuoco di un grandangolo. Ma quando l'inquadratura è così ampia, pur essendo tutto a fuoco, rischia comunque di essere tutto sfuocato, a fissare lo sguardo su un punto non si riescono a vedere i particolari, è solo una forma ancora imprecisa, indefinita. Bisogna avvicinarsi, zoomare su qualche elemento per trovare qualcosa che possa dare maggior senso ad una panoramica generale, qualcosa che caratterizzi in modo più dettagliato. Per fare questo bisognava inserire la figura di Fitzgerald, bisognava scegliere le situazioni in cui era presente e zoomare su di esse. Il primo punto importante, che Fitzgerald ribadì spesso sin da giovane, fu quello della sua origine, il suo essere nato da una madre irlandese abbastanza ricca ma non aristocratica, e da un padre gentiluomo del Sud ma non di famiglia abbastanza illustre: "Fu in quell'atmosfera di disgusto per la volgarità borghese della pseudo-ricchezza da un lato e per l'incapacità e la debolezza della pseudo-aristocrazia dall'altro che Scott crebbe, a disprezzare e insieme invidiare i ricchi e gli aristocratici; di fronte agli aristocratici provando insieme invidia per le nobili origini e disprezzo per l'inefficienza, e di fronte ai ricchi provando insieme disprezzo per la volgarità e invidia per l'efficienza e l'energia." [Ibidem, p. 322]. E' una prima traccia che si allunga per tutta la sua vita e che si insinua nei suoi libri. Intanto seguendo questa traccia Fernanda Pivano è arrivata a vedere, per esempio, come quello della ricchezza fosse un tema che tornava nelle sue storie sentimentali. Anche di questo Fitzgerald fu pienamente consapevole, se disse che la storia raccontata in The Great Gatsby era una storia che conosceva bene avendola vissuta personalmente. La prima volta che la visse fu nel 1914, quando aveva diciotto anni, dopo aver conosciuto Ginevra King, una sedicenne molto ricca con cui ebbe una breve relazione tormentata dalla differenza di condizione sociale. Poi nel luglio del 1918 conobbe Zelda Sayre: "Zelda era la ragazza che 'vuole tutto quello che vuole quando lo vuole' e alla quale piacciono 'il sole e le cose carine e l'allegria' che non vuole 'pensare alle pentole, alla cucina e alle scope' ma preoccuparsi soltanto di avere 'le gambe liscie e abbronzate per nuotare d'estate'." [Ibidem, p. 328]. Si fidanzarono: ma a Fitzgerald rifiutarono tutti i racconti che spedì alle riviste, e gli rifiutarono anche il manoscritto di The Romantic Egotist (che poi confluì in parte in This Side of Paradise), ed era praticamente senza soldi. Così Zelda ruppe il fidanzamento. Fitzgerald si ubriacò e rimase ubriaco tre settimane fino a che venne a salvarlo il proibizionismo: "I giorni seguiti alla sbornia rivelatrice videro nascere il problema sociale nel giovane Scott solo, senza speranze, deluso nella professione, nell'amore e nella vita. Per la prima volta Scott si trovò a contatto con la miseria; una miseria spietata contro la quale non poteva nulla il fascino dei suoi occhi verdi, né la grazia delle sue maniere, né la raffinatezza della sua sensibilità. Per la prima volta si trovò a contatto con la 'gente'; la gente volgare dalla quale l'avevano fino allora difeso il nome del padre e i quattrini della madre. La gente riempiva strade che ora Scott non vedeva più dalle finestre dei locali di lusso ma dall'imperiale degli autobus; o ancora più da vicino, camminando lentamente a piedi quando non aveva più denaro neanche per l'autobus." [Ibidem, p. 329]. Il fatto qui è una presa di coscienza, di contro al disinteresse in cui era vissuto fino ad allora, che fornisce un modo diverso di guardare alle cose, a quelle già passate e a quelle che ancora dovevano arrivare. Entro breve, con This Side of Paradise, sarebbe arrivata la ricchezza: quello che per Fernanda Pivano era qui importante far vedere era che la ricchezza di Fitzgerald fu sempre una ricchezza faticosa, mai spensierata. Per la ricchezza, Fitzgerald sprecò spesso il suo talento, piegandosi a scrivere molti racconti in fretta solo per poter mantenere il suo tenore di vita da favola, e poi negli anni Trenta per far fronte alle spese di cura della moglie malata e a quelle per le scuole della figlia. Prendendo in considerazione tutti questi elementi, seguendoli uno alla volta, Fernanda Pivano ha cercato di mostrare come fosse sbagliata l'idea comune che voleva Fitzgerald uno scrittore assolutamente disimpegnato, lo "scrittore divenuto simbolo della frivolezza mondana, della facilità economica e dell'assenteismo sociale." [F. Pivano, Mostri degli Anni Venti, Milano, La Tartaruga, 1994, pp. 208-209 (prima edizione Milano, Il Formichiere, 1976)]. I personaggi principali dei suoi romanzi erano personaggi che avevano raggiunto o che avevano fatto di tutto per raggiungere la ricchezza, e che da quella stessa ricchezza o dal loro desiderio erano stati distrutti. La sua non era certo una letteratura di protesta come quella proletaria, non aveva i caratteri del radicalismo che avrebbe avuto negli anni a venire, e forse per questo non era stata riconosciuta come tale. Ma Fernanda Pivano ha messo in risalto come anche Fitzgerald denunciasse qualcosa: la sua era un'accusa contro il veleno del denaro, un veleno che veniva visto come mortale e per cui non sembravano esistere antidoti, "la sua incessante denuncia della manipolazione esercitata mediante quel denaro su coloro che non lo posseggono, spesso fino alla loro rovina psichica e disintegrazione morale" [Ibidem, p. 209]: "Il suo Amory Blaine (This Side of Paradise) disintegrato dalla necessità e comunque dal desiderio di guadagnare soldi, decaduto dallo stato di raffinato aristocratico a quello di aspirante arrivista per l'ansia di far 'carriera' e riabilitato finalmente dalla scoperta della realtà sociale che lo circonda; il suo Anthony Patch (The Beautiful and Damned) viziato dal possesso e dal miraggio del denaro fino a intentare un processo moralmente illegale per impadronirsi di una cifra in realtà non più sua e disintegrato in questo procedimento non solo psichicamente ma anche fisicamente, fino a ridursi su una sedia a rotelle; il suo Jay Gatz-Gatsby (The Great Gatsby) che pur di conquistare la ragazza amata che lo aveva respinto per la sua povertà diventa un gangster e finisce assassinato in una torbida storia nella quale nessuno ha voglia di immischiarsi o fare luce; il suo Dick Diver (Tender is the Night) che da splendida promessa della psichiatria finisce inetto medicone in villaggi sperduti del continente d'America per essersi lasciato corrompere dal miraggio di una vita facile e ricca, tutti questi personaggi ripropongono un'identica denuncia, che è poi la denuncia espressa da Fitzgerald stesso con la sua vita, di giovane respinto dalla fidanzata per mancanza di soldi con una ferita che non si sarebbe rimarginata mai più, e di marito che per guadagnare quei soldi sprecò, spesso consapevolmente, il suo talento scrivendo racconti da poco." [Ibidem, p. 211].

Si trattava di seguire Fitzgerald non per limitarsi a ripercorrere le tappe per cui era passato o per ripetere le parole che aveva detto, ma, attraverso quelle tappe e quelle parole, per arrivare a fare luce su alcuni punti ben precisi, per arrivare a fare una critica che avesse come base tutti gli elementi presenti e che da questi elementi tirasse le somme. Così, da un lato c'era la presenza nei libri di Fitzgerald del tema della ricchezza come qualcosa che conduceva in modo diverso i vari protagonisti verso una fine tragica, da un altro c'era la vicenda personale di Fitzgerald stesso alle prese con la ricchezza, da un altro ancora c'era il contesto sociale del tempo con l'isterismo per il denaro. E' stato collegando tra loro tutti questi elementi che Fernanda Pivano ha potuto vedere come il denaro avesse rappresentato un problema per Fitzgerald uomo, e come poi questo problema fosse stato trasportato nei suoi libri diventando in pratica una denuncia alla società neo materialistica di quegli anni.

Ma l'intervento critico su Fitzgerald non serve solo a mettere in evidenza la "necessità" del ricorso al contesto sociale: emerge anche con chiarezza l'impossibilità per Fernanda Pivano di affrontare un discorso su Fitzgerald senza ricorrere alla sua biografia. Fitzgerald è stato uno scrittore fortemente autobiografico, che ha continuamente riversato nei libri sia le sue esperienze sia talvolta i fatti di cronaca di quei giorni, fino ad annotarsi i dialoghi delle persone che facevano da modello ai suoi personaggi e ad usare, per sua stessa ammissione, pagine del diario della moglie. I suoi personaggi principali sono stati tutti personaggi in cui ha ritratto anche un po' di se stesso. E' curioso che a guardarli attraverso la prospettiva del tempo, Fernanda Pivano abbia notato come non solo in quei personaggi ci fosse sin dall'inizio un po' di Fitzgerald, ma anche come la sua presenza sarebbe andata aumentando via via, perché "sarebbe diventato Anthony nella vita come sarebbe diventato Dick nel fallimento e Gatsby nella morte." [F. Pivano, La balena bianca e altri miti, cit., p. 342]. Ma riportare la biografia di Fitzgerald non era solo un modo per far capire meglio certi temi trattati nei libri o per gettare su alcuni di essi una luce diversa. Era anche importante per far vedere come poi quegli eventi reali fossero stati trasformati dall'intervento dello scrittore. Quello che a Fernanda Pivano importava far capire era che dire che Fitzgerald è stato uno scrittore autobiografico non significava assolutamente dire che ha riportato la sua vita reale pari pari sulla pagina, in un esercizio di sola scrittura. Gli eventi reali hanno offerto uno spunto, un appiglio, una forma d'appoggio su cui si è basata inizialmente la fantasia dello scrittore, ma solo per arrivare poi a plasmarla fino a ricavarne una forma diversa, fino anche a fonderla insieme ad altre forme. Il personaggio di Gatsby, ad esempio, "è modellato su un personaggio vero, ricalcato come sembra sul 'caso' Fuller-McGee di cui parlarono ripetutamente i giornali nel 1922; ma in realtà in questo personaggio Fitzgerald volle ritrarre anche se stesso e la sua posizione verso i ricchi: una razza a parte, staccata da lui, barricata dietro la sua fortuna, troppo intensa e squisita per badare alla morale dei comuni mortali." [F. Pivano, Mostri degli Anni Venti, cit., pp. 191-192]. E' anche significativa la tecnica di Fitzgerald riguardo alla costruzione dei personaggi che erano sì modellati su persone reali, ma sempre presentati in modo un po' vago, "evocati da accenni parchi abbastanza da permettere alla fantasia del lettore di svilupparli a volontà con la propria immaginazione, un po' come negli album da disegno che usavano chissà quanti anni fa, dov'era segnato soltanto il contorno e poi ciascuno doveva riempire il contorno con colori di sua scelta." [Ibidem, p. 226]. Ma la vita è rimasta sempre per Fernanda Pivano l'elemento base, quello da cui Fitzgerald partiva per scrivere i suoi libri e quello da cui si doveva ripartire nel tentativo di capirne i risultati.

La vita non era solo l'elemento da cui si doveva partire per capire i risultati di Fitzgerald in senso tematico, ma era anche un punto che non si poteva ignorare nel prendere in considerazione i suoi risultati in senso stilistico. E' stato tenendo presente sia la sua biografia che i suoi libri, che Fernanda Pivano ha individuato il centro della sua poetica, vale a dire la fragilità della vita, della felicità, della gioia, la loro inafferrabilità. E' stato, del resto, sempre tenendo presenti la sua biografia e i suoi libri, che ha respinto l'accusa che lo voleva, oltre che semplice scrittore di costume, anche decadente, e l'equivoco che c'era dietro: "E' facile passare per decadente quando si scelga per mondo dei propri romanzi un'èra passata alla storia come decadente e quando di quell'èra si tocchino gli ambienti che ne sono proprio i più decadenti; ed è ancora più facile passare per scrittore di costume quando si lega la propria vita e la propria poesia all'èra di cui si parla. Certo lo stile di Fitzgerald, con quel suo particolare modo di condurre la pagina in un continuo movimento, di agitarla in una continua variazione delle prospettive, di sfumarla in cenni evanescenti sempre trascinati in un'aria di melanconia e di disfacimento, può parere al lettore superficiale per lo meno vicino al mondo dei decadenti. Ma questa mobilità, questa evanescenza, non sono il risultato di una fuga dalla realtà del mondo: anzi nascono dall'amore di Fitzgerald per la realtà del mondo, dal senso della preziosità delle cose, dalla certezza che le cose sono fragili e vive, ricche di una realtà misteriosa che non si lascia afferrare." [F. Pivano, La balena bianca e altri miti, cit., pp. 351-352]. Era da questo che secondo Fernanda Pivano si poteva capire come le parole di Fitzgerald non fossero mai semplicemente descrittive ma, al contrario, soprattutto evocative ed era sempre da questo, e allo stesso tempo nonostante questo, che si poteva capire come le sue fossero comunque descrizioni precise. Fitzgerald, convinto che ogni cosa fosse inafferrabile, cercava di cogliere quello che poteva esserne il nucleo, gli elementi che, sotto aspetti diversi, la caratterizzavano. Le sue descrizioni, con una tecnica che è sua tipica e che rappresenta la sua grande scoperta, sono una raccolta di sensazioni appartenenti a diversi campi sensoriali. Fitzgerald aveva rincorso la gioia con fiducia e vitalità, ma aveva sempre dovuto accorgersi che ogni conquista non era che momentanea: "era perfettamente conscio di quella piega che lo costringeva a perdere di continuo qualcosa; ma proprio questo conferma che Fitzgerald non è un decadente. Chi perde qualcosa è qualcuno che ha qualcosa da perdere. Quella piega inevitabile della realtà di Fitzgerald ha un significato dinamico: una dinamica in senso negativo, ma sempre una dinamica che si svolge nello spazio e nel tempo. Il decadentismo è un lamento statico, una negazione di vita e di gioia, una ricerca di simboli di quella negazione; ma la pagina di Fitzgerald non è mai un lamento pago di essere tale, e se cerca qualcosa, cerca proprio angoli di gioia a cui aggrapparsi, cieli sereni, giardini luminosi, ragazze sorridenti, uomini al culmine del successo [...] Che le ragazze impazziscano a forza di sorridere e gli uomini non riescano a reggere a successi troppo chiassosi, appartiene alla tragedia di Fitzgerald stesso. Fitzgerald non parte da questo: a questo arriva, con disperazione, inesorabilmente; e contro la sua volontà." [Ibidem, pp. 355-356]. E' questo il centro della questione, perché è proprio "questo che rende Fitzgerald qualcosa che va molto al di là del semplice scrittore di costume o cronista di un'epoca. La concezione di una felicità così fuggevole è una concezione eterna, sempre esistita tra gli uomini e i poeti; e soltanto un poeta poteva percepirla in un momento in cui tutto pareva fatto di felicità: anzi, soltanto un grande poeta poteva percepire come, in questo momento più che in qualsiasi altro della storia, la felicità era instabile, appunto perché era ormai isterica. Il mondo, l'ambiente, il costume per Fitzgerald valgono soltanto a scoprire e a far vibrare la più antica e latente condizione umana: la paura del tempo" [Ibidem, p. 359]. Ma questo non vuol dire negare l'importanza che ebbe Fitzgerald nel ritrarre la generazione del suo tempo. Fernanda Pivano ha sempre mostrato come i suoi libri avessero rappresentato tutti la sua generazione: This Side of Paradise con i giovani impegnati a cercare di superare il moralismo vittoriano dei loro genitori, fino a contenere un vero e proprio "ritratto del costume del momento nel capitolo intitolato Spires and Gargoyles, in un brano famoso che inizia: 'Nessuna madre vittoriana aveva idea di come le loro figlie fossero abituate a farsi baciare senza dare importanza alla cosa'" [F. Pivano, Mostri degli Anni Venti, cit., p. 182], scandalizzando i genitori e venendo acclamato dai giovani; The Beautiful and Damned con la descrizione della vita "sofisticata e dissipata" di quei giorni [Ibidem, p. 194], The Great Gatsby in cui "l'illusione del gangster è l'illusione di quel decennio" [Ibidem, p. 192], e Tender is the Night "con la malattia di Zelda/Nicole a rappresentare il collasso psichico di una vittima di uno Stile di Vita e il fallimento di Dick Diver a rappresentare il collasso morale di un uomo integro irretito e corrotto dal denaro" [F. Pivano, Introduzione, in F.S. Fitzgerald, Tenera è la notte, Torino, Einaudi, 1990, p. VI (prima edizione 1973)]. Quello che per Fernanda Pivano è stato importante è consistito nel non dimenticare, però, che non era possibile limitarsi a questo nel considerare Fitzgerald. I suoi libri, come già detto, non sono stati semplicemente i documenti di un costume; lo sono stati anche, perché Fitzgerald ha vissuto intensamente il suo tempo e nei libri ha riversato la sua vita, la vita come lui la conosceva, in una continua correlazione, con continui rimandi, dove i libri sono addirittura arrivati a prefigurare quella che sarebbe diventata la vita. La sua esperienza non solo tornava nelle storie raccontate ma anche nel suo stile di scrittura, che derivava e rispecchiava anch'esso la sua concezione della vita come qualcosa che non si fa in tempo a tentare di afferrare e già è scappata via: "Fu dalla vita che Fitzgerald apprese tutto quello che sapeva; fu la vita che lo maturò come scrittore mentre lo maturava come uomo: Fitzgerald imparò da sé, soltanto vivendo a migliorare giorno per giorno la sua tecnica di scrittore. E fu l'intensità di vita riversata nelle pagine a farle balzare dal piano a volte 'farraginoso' rimproveratogli da certi suoi critici a un piano animato e ricco di interessi umani." [F. Pivano, La balena bianca e altri miti, cit., p. 339].

Ma molta dell'importanza che ebbe per Fernanda Pivano Fitzgerald sta nella frase con cui si chiude l'ultimo suo libro, rimasto incompiuto, The Last Tycoon: "IL PERSONAGGIO E' AZIONE." [F. S. Fitzgerald, Gli ultimi fuochi, Milano, Mondadori, 1974, p. 284].

Trattandosi di una frase tratta dagli appunti di Fitzgerald, serve prima di tutto a capire alcune sue scelte e soluzioni. Serve, ad esempio, a capire il suo modo di presentare i personaggi, basato sull'aver "sempre respinto l'idea delle descrizioni morali o psicologiche, convinto che solo il dialogo può descrivere un personaggio perché un personaggio esiste solamente attraverso le sue azioni." [F. Pivano, Mostri degli Anni Venti, cit., p. 226]. Ma "il personaggio è azione" è una frase che poi in qualche modo si espande, che va ben oltre Fitzgerald e si spinge fino ad abbracciare tutto un filone della letteratura del '900, che offre a Fernanda Pivano una sistematizzazione di un'idea presente nella sua poetica sin dall'inizio e che riguarda sia un criterio di valutazione sia il modo di condurre l'intervento critico.

"Il personaggio è azione, l'azione è personaggio: è la chiave di tutto, è veramente una chiave di volta. E' il pragmatismo." [V. Chizzini, Intervista a Fernanda Pivano del 1° dicembre 1996. Inedita].

"Il personaggio è azione" è la traduzione del pragmatismo in letteratura. E' l'espressione di un elemento fondamentale della poetica di Fernanda Pivano, che è stato fondamentale sin dall'inizio, ancor prima che Fitzgerald e William James (filosofo del pragmatismo e autore dell'omonimo libro) le dessero le parole per razionalizzarlo. L'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, il primo libro americano di cui Fernanda Pivano si occupò, era già letteratura pragmatista. Le vite dei personaggi di Spoon River erano raccontate, sintetizzate, emblematizzate attraverso una loro azione, attraverso un fatto che li aveva visti protagonisti, attraverso una scelta o un destino che non erano considerati come qualcosa di astratto ma, al contrario, come qualcosa di fortemente concreto, legato alla vita, alla vita quotidiana. Quello che con tanta forza aveva colpito Fernanda Pivano nelle prime letture di libri americani alla fine degli anni Trenta, risiedeva nel fatto che erano "libri di vita", libri che parlavano dell'esistenza semplice dell'uomo, senza falsi eroismi e grandiosità, con un linguaggio piano e quotidiano. Libri in cui gli autori non si mettevano a far conto con tradizioni consolidate, con la cultura, con l'ansia di scrivere qualcosa che fosse "letteratura", ma solo vita, esperienza, qualcosa che riguardasse l'uomo in quanto tale. Un libro è un "libro di vita" attraverso il pragmatismo, ecco quello che le fu chiaro dopo Fitzgerald e William James. Il pragmatismo è la vita considerata in quanto vissuta, in quanto cose fatte, in quanto cose dette, in altre parole in quanto cose avvenute, reali, concrete. Parlando degli scrittori suoi amici, Fernanda Pivano spiega che "i loro personaggi sono lì, soffrono, ridono, piangono, e quando loro raccontano le storie dei loro libri le raccontano sempre nei termini di come si muovono questi fantasmi che sono i loro personaggi. E' molto bello sentirli parlare dei loro libri. Per esempio, ho parlato con McInerney del nuovo libro che sta scrivendo e aveva proprio gli occhi trasognati mentre vedeva muoversi i suoi personaggi, e questo è molto bello. Nel modo ottocentesco gli scrittori vedevano muoversi i personaggi in un mondo di pensieri, in un mondo di introversione, mentre adesso, per esempio nel caso di McInerney, quando lui mi parlava di questi personaggi li vedeva sempre aggirarsi tra le azioni che compivano, ecco il pragmatismo, la differenza con l'ottocento è che adesso c'è il pragmatismo. Si torna sempre lì, è straordinario come questo libretto grosso così ha potuto non trasformare ma spiegare, dare una traccia. Partendo dal principio, perché parte da Mark Twain, l'inizio della letteratura americana è lì, quando c'è stato il divario tra Mark Twain e Henry James, allora Henry James è diventato inglese e lì tutti contenti perché capivano tutto, perché era un modo europeo di scrivere e Mark Twain invece ha cominciato a mettere il ragazzo sul battello, non l'ha messo nel salotto a parlare con la mamma. L'importanza dell'azione... E questo è il pragmatismo." [Ibidem].

La presenza della vita nei libri come condizione per lei indispensabile non può esserci senza il pragmatismo, perché non può che realizzarsi attraverso il pragmatismo. C'è un'affermazione di Fernanda Pivano, che toglie ogni dubbio a proposito del fatto che per lei la presenza della vita sia davvero una condizione indispensabile e che questa presenza sia legata in modo necessario al pragmatismo: "il pensiero, per essere vivo, deve essere azione, perché solo questo è il modo di far capire che si sta scrivendo di cose conosciute, esperite. In assenza di ciò, non vi è nulla di interessante." [In M. N. Rotelli, Fernanda Pivano, in "Intervista", n. 1, Ottobre 1996]. E' un'affermazione molto forte e importante, dentro c'è davvero una parte fondamentale della sua poetica.

Il pragmatismo rappresenta un criterio di valutazione, e lo rappresenta sotto due aspetti. Sotto il piano contenutistico, è chiaro che Fernanda Pivano ha scelto di occuparsi di un libro quando questo libro parlava di vita concreta, quando era un libro fondato su fatti e azioni, su un "modo generale di considerare la vita, e invece di considerarla come una spedizione in Etiopia per 'faccetta nera', considerarla il desiderio di vedere come un uomo si trova di fronte al dramma dell'esistenza." [V. Chizzini, Intervista a Fernanda Pivano, cit.]. Ma il pragmatismo riguarda poi anche il linguaggio, il modo di scrivere, perché da questo punto di vista "ci sono quali parametri? Sempre lo stesso, il parametro dal punto di vista letterario della naturalezza, dello scrivere direttamente come se dalle proprie viscere uscissero questi pensieri, uscissero questi sentimenti." [Ibidem]. Il pragmatismo sintetizzato da Fitzgerald rappresenta anche il discorso della libertà dell'atto creativo, come poi si approfondirà con l'esperienza degli anni Sessanta: "'Il personaggio è azione, l'azione è il personaggio': questa è una frase di Francis Scott Fitzgerald, che esprime un concetto fondamentale per una certa idea dell'arte che non accetta un ruolo subalterno o funzionale al potere." [In M. N. Rotelli, Fernanda Pivano, cit.]. Per Fernanda Pivano non è mai stato possibile prescindere da quest'idea dell'arte come di qualcosa di non sottomesso al potere: non le è stato possibile sin dall'inizio della sua attività, nei primi anni Quaranta, quando l'interesse per la letteratura americana era anche un modo di vivere e manifestare il proprio irriducibile antifascismo.

Il pragmatismo ha rappresentato anche il suo modo di condurre l'intervento critico. Nel tentativo di capire e di spiegare un libro, Fernanda Pivano si è rivolta ai fatti, agli avvenimenti concreti, al percorso compiuto dallo scrittore, al contesto sociale e politico, alla pagina lì presente, non a delle astrazioni o a un sistema di pensiero con cui vedere a priori nell'arte una ben determinata cosa. Certo quello del pragmatismo è stato per lei un criterio di valutazione molto forte, assolutamente ineliminabile, perché solo all'interno di questo criterio le è stato possibile sentire la sincerità, la verità delle cose raccontate in quanto conosciute personalmente. Tramite l'intervento critico, si trattava proprio di tornare a quella che si potrebbe chiamare la concretezza dei libri, e di cercare di restituirla il più pienamente possibile, dove la concretezza nei libri veniva raggiunta attraverso il legame con la vita dell'autore e si esplicava nel loro sembrare vivi, fatti di persone, di cose, di azioni "reali".

2. Ernest Hemingway

Anche nel caso di Hemingway la vita reale è stata l'ineliminabile punto di partenza. Bisognava ripartire dalla vita per riuscire ad andare davvero in fondo, ma questa volta non fu un obiettivo da raggiungere attraverso biografie e autobiografie. Questa volta ci furono giornate passate insieme, lettere e telefonate: questa volta ci fu la conoscenza diretta, e non fu senza conseguenze. La conoscenza personale, ad esempio, fece prendere all'intervento critico su Hemingway un'impronta ben precisa: "Quelli di noi che hanno avuto il privilegio di conoscere e frequentare Ernest Hemingway si sentono a volte investiti del compito di tramandare la sua realtà esistenziale fuori delle deformazioni operate dai media di fronte a una biografia piena di contraddizioni, di ambiguità e di contrasti ma anche piena di gesti di generosità tenuti segreti, di prove di lealtà non vantate, di manifestazioni di umiltà note soltanto a chi gliele vedeva compiere: vanterie e spacconate si alternavano in lui a depressioni e a mutismi drammatici, i suoi apparenti esibizionismi erano per lo più un modo di vincere una timidezza quasi morbosa, le sue gradassate con l'alcool e col cibo erano spavalderie di uno che voleva vincere l'ossessione della morte." [F. Pivano, Album americano, Milano, Frassinelli, 1997, p. 3].

La loro non fu una conoscenza che si esauriva unicamente nella sfera letteraria, come nel caso di incontri di qualche ora o di lettere soltanto per risolvere un problema di traduzione o per avere conferma della comprensione di un tema trattato. Il rapporto tra Fernanda Pivano e Ernest Hemingway fu soprattutto un rapporto d'amicizia, e in questo fu certo fondamentale l'atteggiamento stesso di Hemingway, il suo non amare parlare dei libri che aveva scritto, la sua convinzione secondo cui, come le disse una volta, "di letteratura e di letterati la gente pulita non deve parlare più di quanto non parli delle proprie feci (naturalmente non usò la parola 'feci')." [F. Pivano, Amici scrittori, Milano, Mondadori, 1995, p. 309].

Anche in questo caso, dunque, c'era la compresenza di vita e letteratura, ma con la differenza fondamentale che qui la compresenza non riguardava più solo lo scrittore e i suoi libri, ma riguardava anche Fernanda Pivano e il suo metodo critico, in un incrocio che si faceva sempre più denso di implicazioni. Una delle implicazioni di questo intreccio è stata quella della presenza concreta di Fernanda Pivano nei suoi interventi: la sua figura non stava sullo sfondo, in qualche modo impersonale e invisibile, a raccontare una storia, uno svolgimento, degli avvenimenti rispetto a cui rimaneva sempre estranea, ma entrava nella storia che raccontava con la possibilità di una testimonianza personale, riportando episodi vissuti in prima persona che potevano essere significativi per capire qualcosa di più. La vita non era più necessaria solo alla letteratura perché la letteratura riuscisse a essere viva: ora la vita si faceva sempre più necessaria alla critica, forse proprio per non perdere la vita della letteratura. Il rapporto tra i libri e la critica non era qualcosa di astratto: come quei libri nascevano dalla vita, così era sempre dalla vita che traeva il suo pieno senso, la sua realizzazione completa la critica, ed era rifacendosi alla vita che poteva approfondire i libri, fino ad andare a cogliere sfumature sempre più sottili: "Amarezza e sarcasmo, tristezza e disperazione si addensavano nelle sue pagine come nelle ombre del suo viso e respingevano le facili accuse di 'giornalese' che gli erano rimaste attaccate dagli articoli scritti quando era poco più che adolescente. Quando lo conobbi io, ancora bellissimo all'inizio della maturità, le ombre si alternavano ancora a slanci di felicità, e le vidi addensarsi nei pochi, troppo pochi anni che precedettero la sua morte via via che l'infelicità e la sfortuna gli precipitarono addosso." [F. Pivano, Hemingway, Milano, Rusconi, 1985, p. 15].

L'amicizia con Hemingway è stata determinante per far acquisire definitivamente al metodo critico di Fernanda Pivano una sua ben precisa motivazione e un suo ben preciso senso: "La critica, secondo me, dovrebbe spiegare gli autori" [V. Chizzini, Intervista a Fernanda Pivano, cit.].

A indirizzarla verso questa concezione della critica e in qualche modo a imporgliela quasi come necessaria, era stato sin dall'inizio l'atteggiamento di diffidenza e superiorità con cui in generale veniva accolta la letteratura americana in Italia, e in particolare l'aperta ostilità di cui talvolta era circondato Hemingway. Fernanda Pivano non ha potuto ignorare questa diffidenza e questa ostilità, tanto erano forti e diffuse, ma ha dovuto confrontarvisi, ha dovuto partire proprio da qui per cercare di azzerarle e poter iniziare così, nel caso di Hemingway, un discorso che non fosse più basato sui pregiudizi o sulle falsità che circolavano nei suoi confronti. Si trattava di spiegare, dove spiegare significava raccontare un autore in base alle sue esperienze, al suo tempo, ai suoi propositi e ai suoi risultati letterari.

"La critica, secondo me, dovrebbe spiegare gli autori, e invece secondo le nostre prassi la critica li esamina, li esamina esteticamente: questa era la critica crociana. Esteticamente allora, non so, questo concetto della rosa sul davanzale ritorna nel capitolo quarto e nel capitolo sesto, per esempio, poi si va avanti e si rasenta la formula di adesso che è quella che ha importato Umberto Eco di dire 'la parola rosa viene detta dieci volte', allora arriva Balestrini, 'sì, col computer si può fare la critica perché si può subito sapere quante volte è usata la parola rosa'. A me interessa che mentre una persona scrive e vede la parola rosa pensa all'immagine della rosa e questa immagine gli ritorna in certe occasioni, anche simbolicamente, come avveniva in Faulkner in cui era quasi meccanico l'odore del caprifoglio quando c'era una donna, l'immagine della scarpa, del vomito nella scarpa quando c'era un desiderio sessuale frustrato, lui aveva tutte queste sue simbologie come immagini e ciascuno le immagini se le cuoce come vuole. Ma neanche il diritto di cuocersi le proprie immagini deve avere uno scrittore?" [Ibidem].

L'intervento critico di Fernanda Pivano si propone come proprio compito e proprio senso, quello di spiegare: ma Fernanda Pivano dice "spiegare gli autori", non spiegare un libro, e non è senza motivo. I suoi saggi critici, anche le introduzioni ai singoli libri, non si pongono mai come il tentativo di spiegare un libro in sé, in quanto oggetto con un'esistenza e un'identità indipendenti, valido solo a partire da se stesso. Se così fosse, il problema sarebbe semmai quello di individuare in che cosa consista precisamente questo "se stesso", mentre l'esercizio delle interpretazioni mostra quanto un libro sia sfuggente a ogni definizione definitiva e esaustiva, sempre pronto ad essere afferrato da interpretazioni diverse e pertinenti solo per sgusciare via verso un'interpretazione ancora diversa e ancora pertinente, come se non possedesse una identità sua propria o ne possedesse una abbastanza vaga da poter aderire con facilità ad un'ampia gamma di identità più precise. Per Fernanda Pivano, invece, esiste un'identità sostanziale del libro ed è proprio su questa che si fonda il suo metodo critico: l'identità che deriva ad ogni libro dall'essere il prodotto di una ben determinata persona. E' questo il dato primo che pertiene a un libro, il dato ineliminabile, quello che si può ignorare ma non si può cambiare: ed è l'unica cosa che si possa spiegare. L'unica cosa che si può spiegare è il rapporto tra l'autore e il libro, o meglio ancora tra più libri, con lo sguardo che si fa più ampio, più comprensivo e può seguire uno sviluppo maggiore.

L'intervento critico di Fernanda Pivano non è mai stato e non è mai voluto essere simile al fare di uno scienziato che in laboratorio esamini asetticamente i vari elementi presenti, né ha mai voluto essere simile a un'azione di vivisezione tramite cui sezionare ogni organo con precisi strumenti chirurgici. La critica di Fernanda Pivano ha sempre voluto mettersi a fianco del libro e tentare di aprire delle fessure attraverso cui ci si potesse incuneare, ma senza violenza, non è stata un coltello con cui squarciare, è stata un occhio con cui cercare e un dito con cui indicare, come se il libro fosse dietro un sipario trasparente. L'alternativa era tra guardare da lontano, rimanendo fuori, estranei, distaccati, oppure provare a cercare l'apertura tra le tende ed entrare così in una struttura che, tra l'altro, non ha mai visto come astratta o comunque molto elastica, ma, al contrario, concreta e solida.

"Le mie introduzioni avevano il desiderio di far entrare il lettore dentro il tessuto del libro, spiegandogli come il libro è nato. Quando facevo queste cose, c'era in voga il noveau roman che diceva che non bisognava dire né l'età dell'autore, né l'ambiente del libro, né la trama del libro, che queste cose non contavano. Naturalmente per me era come mettermi, non so, delle formiche rosse sotto le unghie, una cosa terribile! Eppure c'è stato un lungo periodo in cui questo è stata la norma, convalidata da questo benedetto Gruppo 63.

"La base delle mie proposte è in Malcolm Cowley. Malcolm Cowley ha inventato la letteratura americana perché prima di lui c'erano solo degli scrittori che scrivevavo dei saggi e li poi pubblicavano sulle riviste inglesi. L'autoctonia l'ha fatta Malcolm Cowley. Io l'ho seguito e ho cercato di fare nel mio piccolo questi ritratti socio-biografici degli autori e mi hanno detto 'ah, tu fai soltanto la biografia degli autori'! Malcolm Cowley ha proprio inventato questo modo di procedere. I suoi primi esempi sono stati la famosa biografia di Hemingway, che è stata la prima che è stata fatta e che poi lui ha riportato nei suoi Portable, e il caso clamoroso è stato quello di William Faulkner che lui ha riabilitato e lo ha portato fino al premio Nobel, perché è lui che gli ha fatto prendere il premio Nobel. E poi dopo di lui in America hanno scoperto il pragmatismo, hanno scoperto le forme che potevano assumere letterariamente questi problemi. Ecco, questa è stata una grossa chiave di volta per l'America, e per me non è stata tanto una chiave di volta quanto la razionalizzazione di quello che pensavo. E' una cosa che non ho inventato io, però l'ho portata avanti senza rendermene conto mentre in America le davano una forma." [Ibidem].

Malcolm Cowley era nato nel 1898 ed è morto nel 1989, e per Fernanda Pivano è stato "il critico letterario più illuminato del suo tempo" [F. Pivano, Amici scrittori, cit., p. 29]. La sua critica era basata sul pragmatismo, dove il pragmatismo consisteva appunto in quel metodo socio-biografico attraverso cui Cowley riusciva, come racconta lei stessa, a "rendere gli autori da lui presentati vivi come personaggi e connessi pagina per pagina alle storie da loro narrate" [F. Pivano, La balena bianca e altri miti, cit., p. 411]. Esiste una grande similarità di atteggiamento e di intenti critici tra Fernanda Pivano e Malcolm Cowley e, del resto, è lei la prima a sottolinearlo dicendo di considerarlo "mio maestro nello spericolato metodo critico che mi ha attirato tanta ostilità dai letterati italiani" [F. Pivano, Viaggio americano, Milano, Bompiani, 1997, p. 36]. Del resto, era stato proprio Malcolm Cowley a indicare quel bivio tra Henry James e Mark Twain, con Henry James che faceva letteratura alla maniera degli inglesi e Mark Twain che invece rappresentava la letteratura americana, quel bivio che, condiviso, ha segnato l'esperienza e l'attività di Fernanda Pivano.

"La biografia di Malcolm Cowley su Hemingway me l'ha data Hemingway a Cortina e mi ha detto 'questo è l'unico...', anche Malcolm Cowley mi diceva 'io ho avuto il permesso di fare questa biografia', lui non l'aveva lasciata fare da nessuno, e allora Hemingway mi ha spiegato: 'sì, io gliel'ho lasciata fare perché lui è stato con me sulle ambulanze e mi conosceva'. Era necessario per Hemingway non che lui conoscesse quello che aveva scritto, ma che conoscesse perché lo aveva scritto, e questo per me era molto affascinante, perché da noi non usava proprio, uno non solo non se lo chiedeva, ma sotto l'influenza francese addirittura diceva che non aveva importanza perché l'avesse scritto, importavano solo le pagine prese così, pagine da cui è nato in America il postmodernismo." [V. Chizzini, Intervista a Fernanda Pivano, cit.].

"Era necessario per Hemingway non che lui conoscesse quello che aveva scritto, ma che conoscesse perché lo aveva scritto": ecco cosa vuol dire che "la critica dovrebbe spiegare gli autori" ed ecco l'importanza che ebbe l'incontro con Hemingway. Il senso e il compito della critica per Fernanda Pivano risiedono prima di tutto nel cercare di capire e di spiegare perché quell'autore ha scritto quel libro o quei libri, ricercando le influenze, gli intrecci, i rimandi, le contaminazioni, le compenetrazioni tra letteratura e vita. Il lavoro del critico consiste in una sorta di rinforzo, sta nell'evidenziare e ribadire i legami fra libro e autore. E' solo a partire da questo legame, è solo fondandosi su di esso, che poi si potranno avanzare ipotesi, si potranno tentare alcune interpretazioni. Ma è chiaro che anche ricostruire la vita dell'autore, ricercare le confluenze tra vita e libro, e in altre parole verificare l'identità sostanziale del libro, non sono altro che interpretazioni, anche se di un genere che sta per così dire a monte e che precede tutte le altre. E' per questo che diventa particolarmente importante il rapporto diretto con l'autore, e in fondo cercare di capirlo significa cercare di mettersi dal suo punto di vista. Nel caso di un autore controverso come Hemingway, questo mettersi dal suo punto di vista ha assunto un po' la forma esterna di una difesa, e viene in mente una lettera che Fernanda Pivano ha riportato nella biografia che gli ha dedicato, in cui Hemingway la definisce "la mia allieva avvocato figlia amica e bellezza" [F. Pivano, Hemingway, cit., p. 37].

La conoscenza personale è stata per Fernanda Pivano un punto fondamentale nella sua attività. Lo fu, ad esempio, anche nel caso di Faulkner, che incontrò per la prima volta a Parigi nel 1952: "Nelle due ore che parlai con Faulkner capii senza incertezze, come se non avessi mai letto i suoi libri, che la chiave per aprirli è quella del sarcasmo e mi chiesi come avessi fatto a non rendermene conto prima." [F. Pivano, Amici scrittori, cit., p. 174].

Attraverso la conoscenza personale viene restituito il senso di laboratorio artigianale, del libro che, qualunque ne possa essere poi la destinazione e la fruizione, è il prodotto di una ben precisa individualità. Fernanda Pivano cerca di ricostruire proprio il procedimento attraverso cui un libro viene creato, non solo per quello che riguarda la nascita, la crescita, la strutturazione delle idee, ma anche per quello che riguarda il metodo di lavoro a livello più specificatamente tecnico. Così, ad esempio, racconta che a Cortina come a Cuba, dove lo andò a trovare nel 1956, Hemingway si "alzava alle cinque o alle sei di mattina, con l'aiuto di un fiasco di Valpolicella sempre a portata di mano sul comodino, e rileggeva i fogli che aveva scritto il giorno prima, quasi sempre buttandoli nel cestino" [Ibidem, p. 57] e che "rileggeva centinaia di volte i dattiloscritti e poi le bozze dei libri sempre per tagliare e mai per aggiungere nello sforzo quasi ossessivo di cogliere, esprimere, fissare ogni attimo, l'uno dopo l'altro, della realtà" [F. Pivano, Hemingway, cit., p. 15]. A Cortina, quando "la porta della camera di Hemingway era aperta voleva dire che 'lui' stava riposando dal lavoro: il lavoro iniziava alle sei di mattina e a volte alle cinque. In quelle ore era meglio non disturbarlo a meno che venisse lui in cerca di compagnia; ma se capitava di parlargli (erano gli anni in cui già cominciava a bere un po' troppo) lo si trovava lucido e tagliente come una lama, con quel suo sarcasmo spietato e crepitante, le sue associazioni imprevedibili, la sua disperazione senza fondo, drammatica al di là di qualsiasi conforto.

"Erano le condizioni in cui scriveva. Verso le undici o mezzogiorno cominciava la processione dei visitatori e l'incantesimo finiva: Hemingway usciva dalla privacy e raccontava a chi capitava l'episodio o gli episodi che aveva scritto la mattina con qualche aggiunta o taglio o modifica che li rendeva sempre diversi; era il suo modo di 'provare' quale versione andava meglio a seconda della reazione di chi ascoltava." [Ibidem, p. 40]. Questo modo di Hemingway di "provare una storia" Fernanda Pivano lo sperimentò ascoltando e riascoltando vari racconti che poi sarebbero entrati a far parte di quello che fu definito il libro di Venezia, Al di là dal fiume e tra gli alberi, quello stesso libro per cui la chiamò un giorno a Cortina, perché voleva che lo leggesse, voleva un suo parere, e poi gli doveva controllare e correggere l'ortografia delle parole italiane.

Ma si potrebbe obiettare che se questo metodo offre senza dubbio la possibilità di accrescere la conoscenza dell'universo creativo dello scrittore, potrebbe però rendere più arrischiato il momento valutativo. In altre parole, è ancora possibile fare critica in presenza di un coinvolgimento personale che nel caso di Hemingway è stato, tra l'altro, un coinvolgimento molto forte e non una semplice conoscenza?

"Questa è la grande argomentazione dei semiotici. Però come si fa a capire quello che vuol fare un autore se non lo si conosce abbastanza bene da avere per lui anche dell'affetto, o dell'antipatia, perché spesso è antipatia. Per David Leavitt, per esempio, io ho un'avversione che mi fa raggrinzare la pelle, però con quell'avversione io capisco quello che lui fa, se fosse così distaccato alla maniera semiotica io non capirei quello che lui fa, capirei le sue pagine, potrebbero anche essere le scritte sulla bottiglietta del latte, insomma." [V. Chizzini, Intervista a Fernanda Pivano, cit.].

Ci sono le pagine, ma le pagine in quanto pagine, se sono comunque letteratura, sono letteratura senza vita, e una letteratura senza vita è come le scritte sulla bottiglietta del latte. Non c'è differenza: entrambe, le pagine e le scritte sulla bottiglietta del latte, sono senza identità, non hanno alcuna identità sostanziale, non hanno uno scheletro che le sostenga e dia loro forma e consistenza. Per Fernanda Pivano il compito della critica è proprio questo evidenziare la vita delle pagine, il legame delle pagine con la vita di autori che, in un modo o in un altro, sono stati autobiografici. La conoscenza diretta non è altro che un modo per approfondire l'identità sostanziale dei libri. Eppure, nel momento in cui esiste un rapporto personale, si è davvero in grado di valutare la letteratura senza che la vita trabocchi? In altre parole, in presenza di un legame molto forte con uno scrittore, si è in grado di rendersi conto se un suo libro è "buono" oppure il legame in qualche modo condiziona e si è portati a dire, prima di tutto con se stessi, "Sì, non è la sua cosa migliore, però...", cioé anche a giustificare di più attraverso la conoscenza?

"Questo pericolo c'è. Questo pericolo c'è ed è il pericolo che io ho con autori che ho adorato come Hemingway, che ho adorato come Kerouac, che ho adorato come adesso McInerney, che ho trovato degli scrittori grandissimi. C'è il pericolo che la mia ammirazione, diciamo così, possa sfociare poi in un giudizio parziale, però vale correre il rischio, alla peggio si fa un giudizio troppo positivo, ma è difficile che io faccia un giudizio positivo se il libro proprio non vale, perché, per esempio, io dico che Riscatto, che è il secondo libro di McInerney, è un libro molto debole, e dico che Avere e non avere è un libro totalmente fallito di Hemingway. Perché è fallito? Perché lui con questa letteratura proletaria che lo incalzava da tutte le parti ha cercato di fare un romanzo proletario, ma lui non poteva farlo, era totalmente fuori dalla sua vena, come poteva fare un romanzo proletario Hemingway? Ha parlato di questo gangster, lo ha fatto diventare un eroe dannunziano, ma era sbagliato, insomma. E così vale per certe cose che ha fatto Kerouac che solo per dire che Charlie Parker era un grandissimo suonatore ha scritto dei racconti molto deboli. Sicché resta sempre, mi pare, quel tanto di lucidità, di giudizio che serve come una specie di controprova in fondo, perché ci si rimbaldanzisce quando si vede che si è capaci di fare un giudizio negativo, viene il coraggio di andare avanti, così non credo sia un grosso pericolo. E' un pericolo, ma fino a quando si è capaci di fare il contro-transfert, come dicono gli analisti, fino a quando si è capaci di prendere l'anti-veleno, l'antidoto, vale la pena correrlo e l'antidoto c'è sempre finché si vuole, il brutto è quando non si vuole più." [Ibidem].

3. L'esperienza "beat"

L'atteggiamento di collaborazione presente nel metodo critico di Fernanda Pivano è diventato particolarmente evidente tramite l'esperienza degli anni Sessanta e della letteratura cosiddetta beat. Nella presa di posizione netta nei confronti della realtà dell'oggi contenuta in quei libri, nel rifiuto e nella denuncia dello stile di vita imposto, era implicita la richiesta di una risposta, l'impossibilità di occuparsene senza prendere a propria volta posizione. Durante la prima fase di questo suo nuovo lavoro, quella che va dal 1957, anno di scoperta di Howl e di On the Road, al 1960 e che si può chiamare la fase del lavoro a distanza, Fernanda Pivano già condivideva le istanze portate avanti da Ginsberg, da Kerouac, da Corso e dagli altri, ma le condivideva, appunto, con il senso di distanza imposto non soltanto da un puro fatto geografico ma anche dalla mancanza di conoscenza diretta e di contatti personali. A partire dal 1960, con la conoscenza prima di Gregory Corso e poi via via di molti altri, la distanza venne azzerata e con la distanza la possibilità di un semplice assenso senza compromissione. La seconda fase del lavoro di Fernanda Pivano non è più lavoro a distanza basato su una comunanza di pensieri, ma diventa partecipazione vera e propria. Il lavoro a livello critico si intreccia con i rapporti personali d'amicizia che la legano a questi autori e che sempre più le impediscono di rimanere distaccata. Questo aspetto è per certi versi ancora più forte rispetto a come lo era stato nel caso di Hemingway, dove comunque Hemingway rimaneva "lo scrittore": ora quello che animava questi nuovi libri era un progetto di cui i libri si facevano sì promotori ma a cui tutti erano idealmente chiamati a collaborare. Questo, a sua volta, non poteva non cambiare anche il tono dell'intervento critico di Fernanda Pivano nel parlare di libri e di autori che portavano avanti un tentativo in cui era fortemente coinvolta. Una testimonianza ne è l'introduzione scritta nel 1964 a Jukebox all'idrogeno di Allen Ginsberg, dove sempre di più la sua stessa spiegazione diventa denuncia: "Il piccolo borghese americano, che si sente tanto sicuro e potente perché ha quell'automobile frigorifero lavatrice televisione alloggio come tutti, in realtà è solo indebitato fino al collo per pagare le varie rate con cui se li è procurati; ed appena finite quelle, le rate ricominciano, perché automobile lavatrice frigorifero televisione alloggio saranno da cambiare. Allora va a vivere in provincia, dove 'la vita' costa meno e le tentazioni di spese superflue diminuiscono: si alza alle sei di mattina per prendere il treno e andare al lavoro, ritorna alla sera alle sette intontito da una giornata passata a fare un lavoro qualunque (al quale non partecipa se non in vista dello stipendio che gliene deriva), per riprendere forza beve un po' di alcool (poco, perché costa caro), mangia una polpetta di carne ai ferri a una tavola non apparecchiata (o addirittura su vassoi di stagnola riscaldati nel forno e tenuti sulle ginocchia) e guarda la televisione; finché va a letto estenuato, annoiato, immeschinito, smidollato, rintronato dalla martellante propaganda televisiva verso nuovi sogni rateali, nuove schiavitù, nuove miserie camuffate. Ma convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili." [F. Pivano, Introduzione, in A. Ginsberg, Jukebox all'idrogeno, Parma, Guanda, 1992, pp. 14-15 (prima edizione Milano, Mondadori, 1965)]. L'intervento critico è così sempre più partecipativo, più personale, e ne può essere ulteriore esempio, per quanto in qualche modo "estremo", un passo della prefazione a Visioni di Cody, dove ricorda che fu lei a portare il manoscritto del libro che le era stato affidato da Orlovsky a Ginsberg, nel 1972, quando Visions of Cody venne pubblicato tre anni dopo la morte di Kerouac: "Nell'aereo, sui cieli d'America cantati da Ginsberg e le strade lontane cantate da Kerouac, il manoscritto pesante sulle ginocchia, emozione quasi insopportabile, fantasmi di vent'anni consumati in sogni patetici, libertà e non violenza, disarmo e comunicazione, cittadini del Pianeta e nomadismo senza frontiere, uguaglianza di razza di sessi di classi, melanconici sogni senza teoria, fragili sogni senza ideologia, superingenui sogni senza Avidità di Potere, cantati da prose e poesie, proposti da un Nuovo Stile di Vita, vissuti da paladini innocenti di Spontaneità e Disinibizione, Comunicazione e Energia Vitale, cavalieri senza macchia e senza paura contro i draghi moderni di Super Io e Confor-mismo, Alienazione e Consumismo, Bomba Atomica e razzismo, teneri corpi capaci di amore senza sesso e di sesso senza amore, librate profezie per una Consapevolezza pubblica ancora incatenata a McCarthy, soffici immagini di salvezza per i cittadini del Pianeta imprigionati nelle Banche, per lo Spazio del Pianeta devastato da ordigni di guerra, per il Pianeta annegato nel petrolio, genocidi e defoliazioni, massacri di massa e Apocalisse moderna, Età dell'Acquario e Kali Yuga..." [F. Pivano, Prefazione, in J. Kerouac, Visioni di Cody, Milano, Arcana, 1995, pp. 17-18 (prima edizione 1974)].

Il ricorso alla biografia le si è imposto a volte come necessario prima di tutto per sgomberare il campo dalle mistificazioni di cui, proprio a partire dalla distorsione delle loro biografie, erano vittime gli autori di cui si occupava. Ci sono due affermazioni che risultano in questo senso preziose. A proposito di Ginsberg avvisò che "raramente si parla della sua qualità poetica anziché della sua biografia o della polemica del suo contenuto", con la quale si tendeva a ridurne la poesia a semplice fatto sociologico [F. Pivano, Introduzione, in A. Ginsberg, Jukebox all'idrogeno, cit., p. 72], e precisò, nel caso di Fitzgerald: "come un fiume, si susseguirono le biografie di questo scrittore la cui vita è stata frugata nei particolari più intimi, come se le sue vicende, i suoi amori, il suo gin onnipresente, la sua favolosa fortuna e la sua colossale sfortuna interessassero i critici molto più delle sue opere: un destino riservato, specialmente in America, agli scrittori-personaggi che danno una piega alla storia del costume con l'esempio della vita oltre a dare una piega alla storia della letteratura con la grandezza innovatrice del loro stile" [F. Pivano, Viaggio americano, cit., pp. 23-24]. Fernanda Pivano si interessa e si occupa della biografia di un autore per cercare di spiegarne il lavoro: la biografia non è fine a se stessa, raccolta di aneddoti e pettegolezzi, appagamento di curiosità inutili, ma è un elemento da tenere presente per comporre una complessità. La complessità viene composta nel momento in cui tutti gli elementi da cui è formata interagiscono fra di loro per illuminarsi reciprocamente e stabilire relazioni e rimandi, non quando gli elementi vengono lasciati a sé stanti o quando addirittura ne è presente uno solo. Che la biografia non sia mai nel lavoro di Fernanda Pivano inutile o comunque superflua raccolta di aneddoti o pettegolezzi, si può vedere con inequivocabile chiarezza proprio nel caso del suo intervento critico su Kerouac. Lo sforzo è teso a chiarire il suo mondo poetico sia in senso stilistico sia in senso tematico-esistenziale, ed è così che assume rilevanza il be-bop e la figura di Charlie Parker, la conoscenza e l'amicizia con Ginsberg e Burroughs, l'incontro determinante con Neal Cassidy che influenzò profondamente il suo stile; ed è così che viene lasciato spazio al discorso dell'"altalena tra sogno di gioia e realtà di disperazione" nel parlare sia di Kerouac uomo sia di Kerouac scrittore [F. Pivano, Prefazione, in J. Kerouac, Visioni di Cody, cit., p. 25]. Ma non è mai frugare nella vita di Kerouac (per esempio, non è mai andare in cerca di notizie dettagliate a proposito dei suoi vari matrimoni): non vengono presi in esame elementi che non abbiano legami, o comunque legami significativi, con i libri. Lo stesso, del resto, si può vedere bene quando si occupa di Lawrence Ferlinghetti e si domanda: "Da dove ha cominciato questo poeta ora popolarissimo per la sua poesia e per le sue scelte di vita?" [F. Pivano, Album americano, cit., p. 94], per poi iniziare a rispondere: "La sua nascita e la sua educazione non hanno avuto parte rilevante nella sua storia" [Ibidem]. Ad ogni modo, la biografia continuava a sembrarle in qualche modo ineludibile nel caso di scrittori che, come Kerouac, erano sempre autobiografici, e dichiarava così tutta la sua sfiducia verso altri modi di condurre l'intervento critico: "Sarà dunque interessante vedere i suoi libri sezionati secondo il metodo critico che parte dall'abolizione di qualsiasi dato storico-sociale-biografico-ambientale; e non è escluso che un certo settore della critica abbia respinto Kerouac proprio perché non lo poteva studiare secondo questa metodologia." [F. Pivano, Introduzione, in J. Kerouac, Vanità di Duluoz, Milano, Bompiani, 1978, p. 10 (prima edizione 1970)]. Proprio perché in simili casi è Fernanda Pivano stessa a dire esplicitamente che cosa dovrebbe fare la critica in rapporto all'opera o all'autore considerati, è interessante seguire un altro ragionamento analogo a quello appena esposto: "Una delle citazioni più frequenti di Ginsberg, che dei gruppi etichettati come beat fu considerato (contro ogni suo compiacimento) catalizzatore e portavoce, è la 'regola' di William Carlos Williams: 'No Ideas but in Things' (Le idee esistono solo nelle cose), che pareva fatta apposta per respingere insieme 'ideologie' politiche e 'scuole' letterarie; e spiega come la critica letteraria tradizionale non abbia a volte superato la diffidenza che può venire di fronte a opere che, a differenza degli esperimenti compiuti dalle avanguardie tradizionalmente sovvertitrici di antichi sistemi per creare sistemi nuovi, si propongono proprio di sottrarsi ai sistemi e di evitarne di nuovi.

"Per esempio, la critica formale che si propone a volte di esaminare una pagina sforzandosi di dimenticare non soltanto le circostanze che l'hanno ispirata ma addirittura chi l'ha scritta, quando si accinge a esaminare queste esperienze letterarie si trova di fronte a un compito tanto più interessante perché è quasi contraddittorio leggere frasi così indissolubilmente legate alle 'cose' senza ricordare gli avvenimenti dai quali sono nate; e sembra sbrigativo sottrarsi alle difficoltà concludendo, come può venire la tentazione di fare, che certi poeti sono solo 'fenomeni' oppure che la critica propensa a spiegarli nel loro contesto in realtà non è uscita dalla 'cronaca'." [F. Pivano, L'altra America negli anni sessanta, Vol. 1, Milano, Arcana, 1993, pp. 25-26 (prima edizione Roma, Officina e Lerici, 1971)].

C'è un'altra affermazione di Fernanda Pivano che, riferita a Ginsberg e rifacendosi a parole di Ginsberg stesso, ribadisce qual è il collante della complessità che si raggiunge con i vari elementi che vengono presi in considerazione lungo l'intervento critico: "pare davvero che avesse ragione Ginsberg quando scrisse: 'Dovrebbero trattarci, noi, i poeti - alle spalle dei quali loro, i critici, si guadagnano la vita - con un po' più di gentilezza mentre siamo vivi a poterla godere... Nessuno si interessa a quello che noi abbiamo in mente: non c'è che un mucchio di cattivo giornalismo che parla di beatniks e si camuffa da critica di gran classe... La maggior parte della critica è semanticamente confusa: dovrebbe e non dovrebbe, è arte e non è arte; cerca di dire agli artisti di fare qualcosa di diverso da quello che vogliono fare per loro formazione e intelligenza... Tutti continuano a dirmi che non dovrei scrivere nel modo che scrivo. Che cosa vogliono, che scriva in un modo che non mi interessa? Proprio il modo che non mi interessa nella loro prosa e nella loro poesia... artefatta e ereditata e senza sorprese e senza invenzioni?... Costoro non riconoscono alcuna forma di cui non abbiano sentito parlare in precedenza'." [F. Pivano, Introduzione, in A. Ginsberg, Jukebox all'idrogeno, cit., p. 39]. Fernanda Pivano, al contrario, ha portato avanti un discorso critico che non ha avuto niente a che vedere, e anzi ne è stato l'esatto opposto, con quel "modulo tipico della critica che tende a insegnare a uno scrittore quale libro dovrebbe scrivere e come lo dovrebbe scrivere piuttosto che esaminare e cercar di capire il libro che ha scritto." [F. Pivano, Introduzione, in J. Kerouac, Vanità di Duluoz, cit., pp. 15-16]. Fernanda Pivano si è interessata con particolare attenzione proprio agli scrittori che proponevano forme nuove, agli scrittori che sapevano variare la materia narrativa al variare delle situazioni esterne in cui si trovano a vivere e a dare risposta. Un'altra cosa importante, impossibile da dimenticare o non notare, è proprio questo chiedere agli scrittori di rapportarsi alla realtà, di lasciare che la realtà come viene vissuta ogni giorno entri nelle loro pagine e che dunque, in qualche modo, venga sempre fornita una qualche risposta rispetto all'atteggiamento che se ne ha. E' emblematico in questo senso quello che scrisse nel 1970 nell'introduzione a Vanità di Duluoz di Jack Kerouac: "Dalle sue pagine, da questa prosa non sono uscite soltanto un nuovo stile di vita e un nuovo stile letterario; è uscito soprattutto un nuovo modo di vedere la realtà." [Ibidem, p. 14].

Fernanda Pivano ha così cercato lungo tutta la sua carriera di guardare sempre la letteratura dalla parte di chi la letteratura la faceva. Non ha mai creduto a una critica che rimanesse "altro" rispetto a ciò di cui si occupava e le cui valutazioni si basassero dunque sulla distanza e sul distacco. Ha invece creduto a una critica che fosse dialogo, collaborazione, spiegazione di quello che l'autore aveva cercato di fare. Lei stessa ha detto: "Da Melville a Hemingway, da Masters a Anderson, dalla Stein a Kerouac non sono mai riuscita a lavorare a freddo; d'altra parte il mio lavoro non ha mai avuto pretese scientifiche, ma solo l'umile desiderio di aiutare i lettori ad accostarsi ad autori non ancora famosi tra noi, che mi affascinavano per il loro sforzo di svincolarsi dall'apatia del conformismo affrontando i rischi dei non rinunciatari e segnando, a volte inconsciamente, una svolta nella storia della narrativa [...] I miei saggi sono stati soltanto lettere d'amore; se in passato hanno scosso dall'indifferenza qualcuno e lo hanno indotto a interessarsi a qualche scrittore, hanno raggiunto il loro solo scopo." [F. Pivano, La balena bianca e altri miti, cit., p. 484].

 

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