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Il posto del male
Fine dell'Arte e fine della Storia

(Parol on line, dicembre 1999) di Alessandro Tempi

Fu sul finire degli anni Settanta. Durante un seminario, Ludovico Zorzi [(1928-1983), professore di Storia dello Spettacolo all'Università di Firenze. Rinvengo osservazioni analoghe di Zorzi nel suo saggio Intorno alla Commedia dell'Arte, pubblicato postumo nel volume L'Attore La Commedia Il Drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pagg.150-152.] ci espose una teoria interessante: certe forme di teatro popolare dei secoli XVI e XVII, forse quelle stesse che avevano dato origine alla Commedia dell'Arte, avevano secondo lui svolto anche una funzione di contenimento - oltre che di espressione - dei malesseri sociali del proprio tempo, in quanto si ponevano come uniche forme tollerate di devianza. Ma il fatto più interessante, continuava Zorzi, era che a questo effetto potevano venire assimilate anche quelle esperienze teatrali di base che stavano proliferando in quegli stessi anni nel nostro paese ed in specie nel mondo giovanile e che, egli concludeva non impolemicamente, sembravano aver di fatto distolto molti giovani dall'intrupparsi in forme più radicali e violente di estremismo politico.

Conservo nitidamente il ricordo di questa affermazione. Erano gli anni della P38 e le parole del Professore mi colpirono come una bizzarra e provocatoria boutade che tuttavia ricondussi alla bonaria supponenza con cui gran parte del mondo accademico aveva sempre liquidato i fenomeni giovanili. Quella teoria di Zorzi, tuttavia, mi è ritornata in mente quasi vent'anni dopo, allorché leggevo un passo tratto dalle lezioni heidelberghiane dell' Estetica di Hegel:

"Infatti il bello e l'arte, come un genio amichevole, passano per tutti i commerci della vita e adornano gaiamente tutte le circostanze interne ed esterne, addolcendo la serietà dei rapporti, le complicazioni della realtà, cancellano l'ozio in maniera piacevole e, dove non possono portare niente di bene, almeno occupano il posto del male sempre meglio di esso."

[G.W. F.Hegel, Vorlesungen uber die Asthetik, in id. Werke, vol. XIII Frankfurt, Suhrkamp a.M., 1970, pag. 16 (trad. it. Estetica, Torino, Einaudi, 1976, pag. 8).]

L'arte di cui parlava Hegel era evidentemente quella del suo tempo e siccome, come ricordava Wolf Lepenies, "Berlino non è mai stata un'Atene sulla Sprea" [W. Lepenies, Ascesa e declino degli intellettuali in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1992, pag.91.], quel tempo - che possiamo denominare romantico anche nel senso hegeliano del termine - coincide per l'arte con una perdita ed una trasformazione: perdita di quella suprema destinazione che nell'epoca classica della storia del mondo la vedeva ancora come conoscenza dell'Assoluto (e quindi contraddistinta da quelle fondamentali caratteristiche di equilibrio fra forma e contenuto e di armonia fra Io e Mondo che ne configuravano potentemente la funzione di manifestazione sensibile dello spirito nel tempo storico); trasformazione del suo senso e della sua funzione in una specificità adeguata all'epoca della modernità - quella in cui i progressi della razionalità e della soggettività hanno spezzato l'originaria ed oggettiva unità fra uomo e mondo storicizzata nella polis greca - ma anche una specificità, per dirla con Heidegger, tutta concentrata sulla propria artisticità (das Artistische) intesa come elemento discriminante dell'approccio estetico [M.Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Vortrage und Aufsatze, Neske, Pfullingen, 1954 (trad. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Milano, Mursia, 1976).], ossia di quella osservazione raziocinante che, in termini hegeliani, ci consente di fare scienza sull'arte col rispondere alla domanda - impensabile per gli antichi - su cosa essa sia.

La perdita e la trasformazione che investono l'arte hanno a che fare, per il filosofo, con l'impossibilità (o l'irriproducibilità) di un mondo storico che ad essa aveva consegnato la propria espressione sensibile senza alcuna mediazione e senza alcuna istanza riflessiva (anche nel senso che Schiller, Novalis e Holderlin conferivano alla cosiddetta poesia di riflessione, bloccata nello scacco di un'originaria autenticità ormai storicamente inaccessibile) e quindi estetica. Ma che non sia più il tempo di un'armonia, di un equilibrio, di una compenetrante identità fra uomo (interiorità) e mondo (esteriorità) non vuol dire, per Hegel, che non possa più darsi arte. Certo non quella arte, giacché appartiene ad un momento superato dell'esperienza storico-dialettica dello spirito (culminante in quella sua forma ultima che è la filosofia) e giustamente il filosofo ribadisce che quell'arte è e rimane per noi un passato [G.W.F.Hegel, trad. it. cit. pag.18.].

Se l'arte non può più rappresentare l'autocoscienza dello spirito (qui stava infatti la sua superiore destinazione), se, in altre parole, il divorzio moderno fra spirituale e sensibile ha condotto all'impossibilità del primo di esprimersi compiutamente nel secondo, l'arte rimane pur sempre l'apparire sensibile dell'Idea, ossia ciò che manifesta nelle forme sensibili dell'intuizione l'essenza del proprio tempo. Si tratta comunque di stabilire quale sia questa essenza. Essa parla senza dubbio con la voce della modernità, ma le sue radici, dice Hegel, affondavo nell'epoca in cui il Cristianesimo, irrompendo nel mondo tardo classico, libera l'elemento spirituale dalla materialità, [cfr. S.Givone, Storia dell'estetica, Roma-Bari, Laterza, 1991, pag.47.] consentendo il ripiegamento dello spirito nell'interiorità del soggetto. Il compito che l'arte romantica come arte costitutivamente cristiana si assume è quindi quello di rappresentare questa liberazione senza sopprimere la materialità, ma anzi facendo del divorzio fra spirituale e sensibile (vale a dire fra i piani della trascendenza dell'assoluto e dell'immanenza della natura) il proprio argomento ed il proprio oggetto. In tal modo l'arte romantica coincide esattamente con questo moto di ripiegamento nell'interiorità.

Viene da chiedersi, allora, fino a che punto il ripiegamento dello spirito nell'interiorità (che per questa via diventa pienamente consapevole di se stessa) implichi ancora la necessità dell'arte, ovvero fino a che punto la conciliazione autentica fra finito ed infinito spetti ancora all'arte e non alle altre forme dello spirito assoluto, la religione e la filosofia.

Rispondere a queste domande ci aiuta forse anche ad approssimare il modo in cui il filosofo pensasse l'essenza del tempo suo proprio. Ad Hegel lettore di Schiller quanto di Adam Smith non sfugge di certo che la scissione moderna fra uomo e società sia il portato inevitabile del consolidarsi in senso razionalistico della soggettività e che anzi la nascente società borghese-industriale, come opportunamente rilevava Lepenies, consenta a questa di realizzarsi, nel bene e nel male, ad un livello impensabile nella polis greca [W.Lepenies, cit., pag.91.]. Si tratta allora di stabilire se vi sia un'arte capace di esprimere questo sviluppo e questo rivolgimento; si tratta insomma di individuare nuovi compiti ad un'arte duplicemente contrassegnata, come si diceva, dalla perdita e dalla trasformazione; si tratta, in ultima analisi, del problema del senso dell'arte, del suo ultimativo costituirsi in unità di forma (che rimanda all'elemento sensibile e quindi alla materialità) e significato (che rimanda invece al contenuto interiore), della sua razionalità e necessità sempre storicamente specificabili. Compiti adeguati questi, secondo Hegel, ad una scienza - l'estetica - che sia capace di riconoscere il bello artistico (vale a dire quello che si distingue dalla bello naturale proprio per il suo carattere di libertà) come termine di mediazione necessaria fra assoluto e mondo sensibile, fra piano infinito e piano della finitezza, fra l'universalità dell'Idea e la particolarità delle forme. E qui, per Hegel, i termini della questione diventano stringenti: o l'estetica è capace di far emergere, dell'arte, la sua sostanza di opposizione riconciliata, nelle sue manifestazioni storiche, dell'ideale (o bello artistico), o essa si riduce a mere precettistica al servizio dell'etica e perfino della metafisica. Altrimenti detto: o l'estetica è capace di suscitare nell'arte la sua essenza autoreferenziale (vale a dire il fatto che il suo fine sostanziale è in sé e non in altro) e riflessiva (tale insomma da sviluppare un discorso autonomo su se stessa), corrispondendo in ciò ad un bisogno ancora maggiore che nelle epoche in cui l'arte procurava già di per sé un completo soddisfacimento [G.W.F.Hegel, trad. it. cit., pag. 18. ], o non potrà darsi alcuna autentica scienza dell'arte.

Dalla prospettiva idealistica, dunque, l'essenza del proprio tempo va a coincidere, per il filosofo, con la necessità storica dell'arte di darsi una scienza che ne progetti statuto e compiti nuovi. Il superamento moderno dell'arte in senso estetico risponde dunque, nell'interpretazione storico-dialettica hegeliana, non solo all'irreversibilità di un passato, ma anche alla necessità di un futuro: la fine dell'arte è l'inizio dell'estetica (...) L'estetica è la forma di riflessione sull'arte nell'epoca in cui essa vede scemare la propria importanza [W.Lepenies, cit., pag. 93.].

L'irreversibilità del passato non significa tuttavia che in qualche modo esso non sia più disponibile per l'artista e qui entra in gioco un elemento di soggettività che rende la coscienza artistica (che è il risultato di quel ripiegamento nell'interiorità di cui si parlava prima) tipicamente moderna. Che non vi siano le condizioni storiche oggettive per le quali lo spirito possa manifestarsi adeguatamente nell'arte del suo tempo è cosa, per Hegel, di per sé indubitabile; rimane il fatto, però, altrettanto indubitabile che quel passato è sempre richiamabile, continuamente meditabile con gli strumenti analitici e concettuali che proprio l'estetica mette a disposizione della coscienza artistica, che in tal modo non è più solo coscienza creativa, ma anche riflessiva. Ora, è vero che, per questa via, Hegel finisce con l'annettere all'estetica compiti storiografici ed interpretativi quantomeno inaspettati per il senso moderno di questa disciplina [cfr. D.Henrich, Kunst und Kunstphilosophie der Gegenwart (Uberlegungen mit Rucksicht auf Hegel, in Wolfgang Iser (cur.) Immanente Asthetik - Asthetik Reflexion. Lyrik als Paradigma der Moderne, Fink, Munchen, 1966 e H. Belting, Das Ende der Kunstgeschichte ?, Deutsche Verlag, Munchen 1983 (trad. it. La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, Torino, Einaudi, 1990).], ma è altrettanto vero che nella visione idealistica del filosofo l'estetica è destinata ad esser assimilata dalla filosofia della storia, all'interno del cui modello di sviluppo accade non solo che l'arte, penetrata dalla riflessione critica (che è l'effetto e la continuazione dell'arte stessa e quindi il suo compimento autodissolvente), diventi scienza dell'arte [K.Lowith, Von Hegel zu Nietzsche, Europa Verlag AG, Zurich, 1941 (la citazione è tuttavia tratta dalla versione italiana Da Hegel a Nietzsche, Torino, Einaudi, 1949, pag.69. ], raggiungendo una sorta di emancipazione estetica [H.Belting, cit.], ma soprattutto che l'arte stessa riceva una precisa collocazione nella storia del mondo con la funzione precipua di indicare o simboleggiare la sua natura di momento transitorio, destinato a cedere il passo alle altre forme di sapere assoluto cui si consegna l'autocoscienza dello spirito.

Questa transitorietà ha tuttavia per Hegel un profondo significato estetico, perché nello stesso momento in cui ci segnala che l'arte non è più quel modo supremo in cui la verità esiste, diventando in un certo qual modo qualcosa di superfluo o una cosa del passato, ci dice anche che quel passato è lì a disposizione dell'artista, pronto a trasferirsi nelle sue idee e quindi ad essere evocato di nuovo, non nel suo contenuto originario (come erroneamente volevano, per Hegel, i Nazareni), bensì come libero strumento con cui l'artista moderno ha da destreggiarsi al fine di ricavare da se stesso, in piena autonomia creativa, i propri contenuti, padroneggiando presupposti e scopi del proprio operare. E' in questo modo che la coscienza artistica moderna diventa coscienza estetica del moderno.

Non è difficile riconoscere nel discorso hegeliano - come per molti versi sembrano farci notare alcuni [i già citati W.Lepenies e D.Henrich, cui aggiungasi J.Ritter, Asthetik, in Historisches Wortbuch der Philosophie, Basel, 1971.] - un forte carattere anticipatorio di quella che sarà la precaria situazione dell'artista contemporaneo, che ha alle sue spalle un passato possente, storicamente irripetibile, spesso ingombrante, ma che, seppur è improponibile nei suoi contenuti originari, è tuttavia disponibile come smisurato patrimonio di forme e di modalità espressive, vale a dire di strumenti che l'artista è ormai in grado di utilizzare liberamente con quella piena consapevolezza di sé (della sua funzione come dei suoi scopi) che la moderna riflessione estetica gli assicura. Vi è senz'altro più di un'analogia fra questa condizione e quella in cui deve essersi trovato, agli occhi di Hegel, l'artista romantico, che si vede ad operare in una fase terminale della storia, ovvero quella in cui le opere attingano liberamente a tutta la storia delle forme artistiche e in cui lo spirito giochi ininterrottamente comprendendo ed amando tutto il finito senza perdercisi [Cfr. W.Lepenies, cit., pag.96. ].

Il dono che Hegel consegna alla cultura artistica del proprio tempo, ma ancor di più a quella dei tempi ancora a venire, è dunque di straordinario valore anticipatorio: una volta entrata nell'orbita dell'estetica, l'arte compensa la perdita della sua necessità storica (quindi della sua superiore destinazione) assumendo il proprio passato (vale a dire il bello artistico nelle sue manifestazioni storiche) come oggetto e come strumento di contemplazione, riflessione, analisi; l'emancipazione estetica ripaga insomma l'irreversibile condanna di superfluità per un arte che ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito, ma a cui è consentito di raggiungere quell'autonomia che par coincidere con la consapevolezza che l'artista guadagna della propria soggettività. In questo andare oltre se stessa dell'arte, questa peraltro riesce a significare in pari tempo un ritrarsi dell'uomo su di sé, attraverso cui l'arte perde ogni saldo legame con contenuti e con forme determinati e raggiunge la sua compiutezza [K. Lowith, trad. it. cit., pag.69. ].

In questo superamento di se stessa, l'arte si consegna interamente all'uomo, alla libertà creativa e pensativa che lo caratterizza, ma anche alla sua precarietà creaturale. Questa è la specificità adeguata all'arte del proprio tempo, per Hegel. Specificità ambigua, però, non solo perché consegnandosi alla precarietà umana essa stessa diventa fatto precario (andando cioè incontro alla propria deassolutizzazione), ma anche perché ruota tutta intorno alla nuova funzione annessa all'arte nel quadro della civiltà moderna: che proprio perché si compie nell'adornare e nell'addolcire la vita umana, finisce gradualmente col coincidere, come direbbe elegantemente Vattimo, con una generale estetizzazione dell'esistenza [G.Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985, pag.60.] quale la vediamo oggi compiutamente. Ecco che dunque l'ambigua specificità che il proprio tempo conferisce all'arte è quella di un autosuperamento che è anche un dissolvimento in due fasi: dell'arte nell'estetica e dell'estetica nell'estetizzazione. Verrebbe da dire, insomma, che Hegel apre la via ad un'arte la cui unica specificità consista nel non averne più alcuna, ovvero nel lasciarsi assorbire da - o nel rimettersi a - tutti i discorsi possibili su di essa, nell'esplodere fuori dai confini istituzionali assegnatigli dalla tradizione estetica. In questo senso, può l'inessenzialità [colgo questo calzante termine da G.Vattimo, Oltre l'interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1994.] che sembra caratterizzare oggi l'arte contemporanea in molte sue manifestazioni essere ricondotta a quello stato di seppur sublime superfluità nel cui segno, hegelianamente, si apre il ciclo dell'arte moderna ? Stiamo ancora scontando il destino di un'arte che, come profetizzava il filosofo, subentra al posto del male ? E che cosa significa, in ultima analisi, occupare il posto del male ? Significa distoglierci dal compierlo, come provocatoriamente sosteneva Zorzi dei giovani teatranti di strada della fine degli anni Settanta, oppure che, come osservava recentemente Lepenies, nell'era della post-storia, la smoralizzazione generalizzata susseguente alla scomparsa delle grandi utopie progressive (il fatto, cioè, che non esistendo più alternative reali all'attuale sviluppo storico, il mondo in cui oggi viviamo possa essere pensato come il migliore dei mondi possibili [W.Lepenies, cit., pag.101.]) accorda all'esperienza artistica occasioni sempre più labili ed ininfluenti (che si traducono, da un lato, in spazi sempre più speciati - gli ormai noti e vituperati white cubes [vale a dire gli spazi museali e galleristici, solo per i quali, spesso, si ha l'impressione che le opere d'arte siano pensate e realizzate.]-, in cui essa continui a sussistere senza dar più alcuna noia ad alcuno, ma anzi autoriproducendosi ostinatamente nella propria speciosità, oppure in spazi più ampi, ma sostanzialmente inconsistenti e futili, di estetizzazione universale) ?

Su questi argomenti le certezze sono labili. Se da un lato la tesi del superamento dell'arte è valida essenzialmente all'interno del sistema filosofico che la formula - che quindi si può accettare o meno -, dall'altra questa stessa tesi, come rilevava Hans Belting tempo addietro, conviene più che mai alla cultura contemporanea, giacché nell'ascesa estetica dell'arte (nella risposta hegeliana alla sua transitorietà, insomma) trovano posto le premesse non solo di una funzione autoreferenziale dell'arte nella modernità, ma soprattutto della centralità dell'estetica come origine stessa della modernità. A partire dalla provocazione nietzscheana sulla sola giustificabilità del mondo in termini estetici, attraverso fenomeni epocali quali la secolarizzazione, il sogno-mito delle avanguardie storiche di abolire la separazione fra arte e vita, l'estetizzazione della politica e la politicizzazione dell'estetica, fino al blurring of genres [cfr. C.Geertz, Blurred Genres, in The American Scholar, 2, 1980, pp.165-179 ; e R.Rorty, Contingency, Irony, Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge, 1989 (trad. it. La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1990).] attuale, la cultura di questo ultimo scorcio di millennio vive ad occhi aperti il sogno-incubo, mutuato dalla sua emancipazione estetica, della propria autoreferenzialità, omettendo di ricordare come il primo a parlarne, Hegel appunto, la riconducesse ad uno stato di transitorietà e di superfluità. Hegel parlava dell'arte del suo tempo, è vero. Ma se accettiamo quella supposizione intorno all'ascesa estetica dell'arte come origine della modernità, vediamo che la profezia di Hegel andava molto più in là di quanto egli stesso potesse immaginare. Del resto, i generi artistici che Hegel addita come adeguati alle nuove condizioni storiche del suo tempo non afferiscono più già alle arti figurative, ma a quelle della parola (in specie nel romanzo egli vede la rappresentazione prosastica di quei nuovi intrecci e conflitti in cui si protagonizzano - e forse anche agonizzano - le esistenze individuali colte, spesso, nel loro stridente inerire). Il resto è storia : fin dall'inizio del "secolo breve" la logica della riproduzione mediale si è impossessata della cultura [qui è d'uopo rinviare a Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduziertbarkeit, 1936 (trad. it. L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966. Tuttavia, per una trattazione più estesa e dal versante "pessimistico" del tema è utile rinviare anche a Michela Nacci (a cura di ), Tecnica e cultura della crisi, Milano, Loescher, 1983.]. Il cinema in particolare, questa singolare mutazione cinetica del romanzo, si è irreversibilmente ritrovato consegnatario di quel codice multiplo [cfr. Renato De Fusco, Storia dell'arte contemporanea, Bari-Roma, Laterza, 1983, pagg.VII-VIII.] che tradizionalmente era appartenuto all'arte del passato e che permetteva che essa, in tutte le sue forme, risultasse autenticamente popolare e immediatamente fruibile (se non comprensibile). Poi i media televisivi hanno fatto il resto. Dall'ascesa estetica alla sparizione dell'arte [cfr. Jean Baudrillard, La sparizione dell'arte, Milano, Politi, 1988.], insomma, il passo è breve, ma soprattutto inevitabile. Ed il posto del male è in fondo sempre meglio di quella sparizione o eclisse che il grado xerox [idem, pag. 7 e passim.] della cultura della simulazione assicura ormai all'arte contemporanea.

 

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