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le "Verifiche" di Ugo Mulas (1970-72). Discorsi fotografici sulla fotografia.

di Carmelo Amore


Le immagini delle "Verifiche"

1. Premessa

2. La possibilità della scrittura fotografica

3. Il tempo, lo spazio, e il corpo della tecnica.

4. La fotografia e lo specchio del mondo.

1. Premessa

Le Verifiche sono una serie di quattordici operazioni fotografiche, progettate e realizzate a partire dal 1970, nelle quali i motivi della poetica di Mulas si condensano nella realizzazione di oggetti fotografici, ciascuno dei quali s'interroga su una delle principali componenti della pratica fotografica considerata in tutte le sue fasi principali.

Si tratta di fotografie, in genere tutte di formato 50x60, montate su lastre di alluminio e chiuse in una cornice in alluminio o plexiglass, a testimonianza del fatto che la foto è un oggetto costituito all'interno di una pratica complessa, un'unità indivisibile tra le operazioni del soggetto e le figure del mondo. Si ribadisce così che la foto non si riduce all'immagine, che essa ha una durata propria in quanto condensa una relazione con il reale. L'oggetto fotografico dunque si mostra in questa serie di Verifiche, che stabiliscono un ordine di manifestazione delle varie componenti del senso complesso della fotografia. Si attua allora una "verifica" delle sue possibilità significative, delle sue caratteristiche tecniche, dei momenti della sua storia in cui si può rinvenire la specificità del suo potenziale espressivo.

Lo sfondo delle Verifiche è ravvisabile nella fenomenologia di Merleau-Ponty, con la quale esse hanno in comune la radicalità di una domanda che nasce dall'orizzonte stesso delle cose, delle operazioni in cui siamo quotidianamente immersi. Approfondendo i principi tecnici della fotografia, se ne porta alla luce la capacità di costituire un ambiente, una nuova espressione del mondo. Il tema delle Verifiche è lo stile della fotografia.

"Con l'esistenza ho ricevuto un modo di esistere, uno stile. Tutte le mie azioni e i miei pensieri, sono in rapporto con questa struttura, e anche il pensiero di un filosofo è solo una maniera di esplicitare la sua presa sul mondo. Eppure io sono libero, non malgrado...queste motivazioni, ma per mezzo loro. Infatti questa vita significante, questa certa significazione della natura e della storia che io sono, non limita il mio accesso al mondo, ma viceversa è il mio mezzo di comunicare con esso" [M.Merleau-Ponty, Phenomenologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945; tr. it. Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965, p.580.].

L'individuo che viene al mondo, per Merleau-Ponty, non è né una monade, né un agglomerato scomposto di sensazioni, né una prospettiva esterna al mondo, che potrebbe cambiare un punto di osservazione, indipendentemente da quanto guarda, alla volta. Ogni individuo è un campo d'esperienza, una possibilità del mondo.

Una volta venuto al mondo c'è un nuovo ambiente e il mondo riceve un "nuovo strato di significato" [Ibidem, p.521.]. La struttura che l'uomo forma con il mondo e con gli altri uomini, le percezioni dei quali si sedimentano nel mondo per riproporsi come sue figure, non è statica, ma si distende lungo un piano percorso dal movimento di continua proposta e risposta.

Il corpo si fa cosa del mondo ed il mondo penetra in noi, che ne facciamo esperienza solo grazie ad un sistema di orizzonti parziali.

Su questo stesso piano si collocano le domande sulla tecnica fotografica di Mulas. Le operazioni fotografiche si profilano secondo il ritmo con cui il mondo preme su di noi, secondo le modalità dell'inquadrare, dello scattare, del partecipare attraverso l'obbiettivo a quanto ci si offre. Di rimando, certe operazioni fotografiche vengono avvertite dal soggetto come proprie, anzi lo divengono nell'atto stesso di rilanciare una risposta.

Non accade che si rifletta prima sul come agire, per poi attuare un'idea. La riflessione delle Verifiche viene alla fine del percorso artistico di Mulas e questo non è solo un dato cronologico che mette ordine nella sua produzione fotografica. Noi siamo sempre, come ricorda Merleau-Ponty, alle prese con il mondo che portiamo ad espressione con le nostre operazioni. Il fatto che la riflessione sia in ritardo rispetto all'attuazione del loro senso concreto rispetta la situazione originaria per cui viviamo da sempre nel mondo, dal quale estraiamo significati grazie a quelle operazioni medesime. "Verifica" equivale allora a esplicitazione del modo di formazione di un ambiente. Il fatto poi che le Verifiche siano degli oggetti fotografici ci ricorda che il valore delle operazioni fotografiche, come di qualunque altra pratica significativa, non sia stabilito una volta per tutte, dal momento che il loro senso è farci incontrare il mondo sempre di nuovo. Le tecniche fotografiche non sono predeterminate una volta per tutte al momento della loro invenzione, ma nel contempo il loro valore non è né arbitrario né strumentale. Il loro senso è sempre in corso di formazione e prenderne possesso significa ricostruirlo. Per questo motivo gli oggetti fotografici che analizzeremo hanno un titolo, che ne illustra il tema e fornisce loro una dedica, rivolgendosi a un protagonista delle origini della fotografia o a qualcuno, contemporaneo di Mulas, che ha riscoperto il valore di certe operazioni. La fotografia non ha un solo nome, con un significato stabilito una volta per tutte dalla tradizione, perché essa si compone dei nomi di diverse operazioni che vivono nello spazio di una dedica, nel rinvio al passato delle invenzioni o al futuro dei loro possibili usi. I significati delle operazioni fotografiche vivono nelle loro realizzazioni e mutano col mutare degli orizzonti che esse rendono visibili. Ogni oggetto fotografico è portatore di una doppia visibilità: esso ci mostra sì un'immagine che può esaurire la nostra attenzione alla sua presenza, a ciò che ci fa vedere, ma nel contempo il senso dell'immagine rimanda alle operazioni con cui essa è prodotta, alla tradizione tecnica con cui esse ci sono giunte, alla visibilità stessa del fotografo. Per questo le Verifiche sono una serie continua in cui s'intrecciano le origini e le innovazioni della fotografia, il tema della partecipazione del fotografo al mondo e lo studio della tecnica fotografica.

Non esporremo le Verifiche secondo l'ordine cronologico di realizzazione, ma le raggrupperemo per temi in tre gruppi che ci sembrano poter dare idea della omogeneità delle tre linee di ricerca lungo le quali si muove l'intera produzione delle Verifiche.

2. La possibilità della scrittura fotografica.

Con la Verifica 1, Omaggio a Niépce, Mulas mette in evidenza uno dei principi costitutivi della fotografia ovvero la superficie sensibile. Il negativo sviluppato a contatto senza essere stato impressionato si ritrova esposto come un oggetto decontestualizzato dal suo normale uso e riesce a stimolare la nascita di un nuovo punto di vista sull'invenzione di Niépce, il cui significato è stato dimenticato nell'epoca in cui l'accesso alla fotografia si fa sempre più generalizzato, quando l'offerta di nuovi mezzi tecnici e l'automatismo delle azioni prendono il sopravvento. Ma sospendendo il contesto d'uso, non si ottiene solo un objet volée, non assistiamo solo alla sottrazione da un contesto, perché ci troviamo invece di fronte al supporto sensibile sul quale si stringe il nesso con il mondo. L'esposizione del negativo non può essere infatti scissa dalla presenza della linguetta bianca che ha preso luce automaticamente, all'apertura del rullino. E' una sorta di inversione di rapporti: i sali d'argento dei negativi sono stati ripuliti dallo sviluppo senza esser stati utilizzati, quindi non si è creata nessuna operazione di fissaggio, mentre la parte di rullino che normalmente si butta via ha registrato l'interazione con la luce. I rapporti tra il negativo e la linguetta, tra la presenza della luce nei numeri che ordinano progressivamente i singoli fotogrammi e l'assenza di impressione del negativo, tra l'apparente inutilità della linguetta e il suo prender luce, assumono la configurazione del chiasma. Vediamo, grazie a questa operazione, la disponibilità del negativo a prender luce dal punto di vista di ciò che normalmente viene scartato nel procedimento fotografico. Viceversa vediamo l'importanza della linguetta dal punto di vista della modificazione della luce che normalmente non la riguarda e che colleghiamo solo al negativo della pellicola. Grazie a questo gioco di scambi il negativo non impressionato non è un nulla, nonostante in esso non si manifesti alcunché, perché a mostrarsi è l'attesa della luce, la modificazione di una superficie che è già predisposta ad accoglierla. I numeri dei fotogrammi, la sigla della casa produttrice testimoniano che il negativo è già un progetto di immagini e che l'automatismo con cui alle origini si qualificava la tecnica fotografica è in realtà una trascrizione. La fotografia diviene così una forma di scrittura, un mezzo che esprime il mondo perché ne fa parte, a partire dalla quale si delinea anche l'identità del soggetto che con essa opera. Il significato attribuito da Niépce alla propria invenzione viene ricordato da Mulas solo nella misura in cui esso sottolinea la responsabilità e l'intenzione del fotografo, che sa di aver sempre a che fare con qualcosa che gli preesiste e che lo mette in condizione di esprimersi. Con la Verifica 1 si attua un passaggio importante dall'accento posto sulla registrazione automatica dei fatti, dalla ricerca di un modo con cui permettere al fatto di imporsi nella propria presenza, all'attenzione all'evento e all'operazione di scrittura in cui esso si produce.

Dalle lettere di Joseph-Nicéphore Niépce, sappiamo che egli riuscì a fissare l'immagine della camera oscura fin dal 1816. Niépce aveva costruito una camera oscura di circa tre centimetri quadrati per lato, provvista di un tubo allungabile e di un vetro lenticolare. In una lettera al fratello, datata 5 Maggio 1986, scrisse:

"Ho messo l'apparecchio nella stanza in cui lavoro, di fronte alla voliera e alla finestra aperta. Ho fatto l'esperimento secondo il procedimento che tu sai, carissimo, e ho visto sulla carta bianca tutta quella della voliera che si può vedere dalla finestra e una debole immagine dei telai della finestra che erano meno illuminati degli oggetti esterni.... Mi sembra dimostrata la possibilità di dipingere in questa guisa... Quello che tu avevi previsto è accaduto. Il fondo del quadro è nero, e gli oggetti sono bianchi, vale a dire più chiari del fondo" [cit. in Newhall Beaumont, The history of Photography, Museum of Modern Art, New York, 1982; tr. it. Storia della fotografia, Einaudi, Torino, 1984, p.12. La citazione è originariamente tratta da Victor Fouque, La Vèritè sur l'invention de la photographie: Nicéphore Niépce, sa vie, ses essais, ses travaux, Libraire des Auters et de l'Académie des Bibliophiles, Paris, 1867, pp.64-65.].

La lettera di Niépce descrive con precisione il funzionamento del negativo. Se egli avesse saputo come stampare i negativi, avrebbe potuto invertirne i colori in corrispondenza della distribuzione di luci ed ombre esistente nella realtà. Ma la sensibilità della superficie scoperta da Niépce non forma più per Mulas un piano sul quale i fatti imprimano autonomamente la loro presenza, ma la dimensione nella quale si registra l'evento della costituzione dell'oggetto fotografico. Esso dipende dallo spazio del negativo predisposto ad accogliere l'impressione della luce, esso stesso disponibilità alla luce, e il momento in cui ciò che c'è si inscrive sul supporto sensibile. Questo momento è un frattempo, un intervallo di tempo che deve sfuggire al controllo del fotografo, il quale altrimenti nella foto non incontrerebbe che se stesso. Riscoprire il senso della superficie sensibile significa allora comprendere che la progressione spazio temporale scandita dai numeri dei fotogrammi è sia parte di un progetto, invito all'assunzione di un punto di vista, sia parte di ciò che si è progettato di vedere. Questa mediazione sensibile, nel momento stesso in cui libera il fotografo dalla riduzione a semplice operatore, lo vincola alla responsabilità della scelta di un punto di vista, consapevole della necessità che chi vede scelga una prospettiva ed il mondo visto non si esaurisca in questo proposito della visione.

Che lo sguardo fotografico sia questa relazione è quanto ci conferma la Verifica 5 - L'ingrandimento del cielo (Per Nini) del 1972.

L'operazione dell'ingrandimento riguarda l'elaborazione stessa della fotografia e pertiene al passaggio dal negativo al positivo su carta, essendo legata alla scelta del formato della pellicola. Ciascun tipo di pellicola infatti permette di conseguire determinati effetti con l'ingrandimento, che incideranno notevolmente sul senso stesso della foto. Considerata la piccolezza dei formati in uso, dice Mulas, "si ricorre quasi sempre all'ingrandimento per portare a termine una fotografia" [A.C. Quintavalle, a c. di, Ugo Mulas. Immagini e testi, conversazioni con Ugo Mulas, Parma, Istituto di Storia dell'Arte, 1973, p.88.]. Utilizzando un formato medio, che permette un intervento agevole durante la fase dell'ingrandimento, si possono senza difficoltà proteggere delle parti del negativo o aggiungere della luce in altre, per controbilanciare gli effetti del dislivello che può crearsi tra la luce reale e quella trasferita su pellicola. Il formato della pellicola permette poi di contenere o meno la granulosità dell'immagine fotografica. L'elaborazione della foto che si fa durante la fase dell'ingrandimento è allora essenziale, per cui è fondamentale comprenderne i limiti di validità e le caratteristiche. La Verifica si compone di tre immagini, stampate su uno stesso supporto, che hanno come soggetto il cielo. Soggetto che non può essere ingrandito, scelto da Mulas per ironia, nei confronti di chi è portato a ingrandire a dismisura le proprie foto, ma anche per saggiare i limiti stessi del procedimento analizzato. La prima immagine è la stampa a contatto di un film da trentasei fotogrammi, ciascuno dei quali riporta l'immagine di una porzione di cielo, fotografato ripetutamente con un grandangolo 20 mm, in modo da cogliere ampie porzioni di cielo e avvertire il passaggio dal chiaro allo scuro del cielo al tramonto, inquadrando con la macchina verso l'alto e in perpendicolare all'orizzonte o parallelamente ad essa. Le varianti di inquadratura consentono di apprezzare le variazioni di luce, poiché nelle immagini realizzate ponendo l'obbiettivo verso l'alto figurano le zone più buie del cielo in contrasto con le altre. Se il negativo stampato a contatto senza esser stato impressionato è pura disponibilità alla luce, il cielo così fotografato è totalità di luce, colta nelle sue molteplici varianti. Come la pura apertura sensibile alla luce non basta a costituire l'oggetto fotografico, così la stessa profferta di luce è insufficiente. Occorre la mediazione tra queste due componenti per strutturare l'immagine e compiere l'operazione fotografica. Il tempo della impressione possibile della luce deve ancora tradursi nello spazio della pellicola e da questa trascrizione su un piano sensibile comune nasce la durata di un evento che si condensa in immagine. Lo spazio e il tempo, la luce ed il supporto, non preesistono l'una all'altra ma non hanno possibilità di sussistenza se non a partire dalla realizzazione in immagine. Ancora una volta la durata dell'evento dell'immagine è frutto della iscrizione dei possibili su un supporto sensibile. Questa scrittura sensibile vive poi nella composizione non solo dell'immagine, ma dell'intero oggetto fotografico.

La seconda immagine di questa verifica è l'ingrandimento di una porzione del negativo. L'immagine del cielo acquista una elasticità, una tensione quasi serica grazie alla trama compatta che emerge con un ingrandimento al limite della grana. La componente grafica dell'immagine così ottenuta non viene avvertita come un artificio esterno alla logica interna dell'immagine. Si tratta invece di una vera e propria tecnica di trascrizione che si integra con l'immagine, dando al cielo la consistenza di un tessuto luminoso, in modo da restituire la variabilità dei modi con cui la luce vi si offre.

La terza immagine è l'ingrandimento di un piccolissimo dettaglio del negativo, attuato nella proporzione che sussisterebbe tra un negativo 24x36 proiettato su una parete a sei o sette metri di distanza e l'ingrandimento di tre o quattro metri di una sua parte, della quale viene prelevato quel tanto che può inserirsi su un formato 40x50. La trasparenza, la tensione traslucida dell'atmosfera del tramonto che l'ingrandimento riusciva a ridare all'immagine del cielo, ora scompare. Ad essere visibili rimangono solo i sali d'argento con la loro trama granulare, normalmente nascosti alla visione mentre essi rendono possibile la comparsa dell'immagine. Questo mostra che

"l'ingrandimento al di là di un certo limite snatura l'immagine; si parte dalla pellicola, dal fotogramma, e si ritorna al fotogramma; si ritorna a quella che è la materia base della fotografia, la sua composizione chimica a base di sali d'argento. A un certo punto non si vede più qualcosa, la cosa fotografata, si vede il mezzo che è servito a fotografarla; cioè perdi di vista quello che era il soggetto della tua fotografia e ti ritrovi il mezzo che ti era servito a registrare, a creare queste immagini. Si parte dal mezzo e, se non si sta attenti, si ritorna al mezzo" [Ibidem, p.89.].

Non bisogna mai ingrandire fino al punto in cui la grana diventa troppo evidente, o quantomeno si deve esser consapevoli che si sta rendendo come soggetto il mezzo di trascrizione che usiamo per esprimere il senso del reale. Ma questo è possibile proprio per la natura duplice della scrittura fotografica, che in quanto mondo e piano di raffigurazione può anche divenire soggetto della ripresa fotografica. Il pericolo risiede allora nel dimenticare la specificità della fotografia, nel fare della tecnica uno strumento che, posto in evidenza, non potrà far altro che rimandare a se stesso. Il valore dell'immagine può essere recuperato solo ricordando la sensibilità del supporto della tecnica fotografica e applicando un punto di vista, una decisione consapevole di lettura. In questo caso per esempio, il significato negato nel blocco duro e frontale della grana può ritornare come immagine di una parete, di un muro, guardati da una prospettiva informel. La tecnica non va quindi mai disgiunta dall'applicazione di un punto di vista interpretativo che contribuisca a conferire significato all'immagine.

L'ingrandimento allora, come passaggio tra il negativo e il positivo dell'immagine, è una sorta di limite interno nel processo di costituzione della foto. A partire da esso può generarsi una crepa tra il senso della pratica fotografica ed il suo risultato, così come esso può divenire il luogo in cui prender coscienza della necessità di rispettare la sensibilità del negativo. Si può quindi incentrare proprio sull'ingrandimento una riflessione sulla sorte dell'invenzione della superficie sensibile.

Di questo si occupa la Verifica 6 - L'ingrandimento - 1972- Dalla mia finestra pensando alla finestra di Le Gras.

La finestra che apre lo sguardo alla veduta di Le Gras è il luogo dove Niépce riuscì a ottenere un'immagine tale da fargli esclamare che non avrebbe potuto desiderare di meglio. Si tratta di un'immagine che mostra l'inquadratura da una finestra sulla campagna e alcune costruzioni del cortile della casa di Niépce a Saint-Loup de Varenne [Questa immagine è frutto del tentativo di Niépce di fissare le immagini della camera oscura con lastre di peltro sulle quali applicava del bitume sensibile alla luce e solubile in olio di lavanda, che se esposto alla luce s'induriva e diventava insolubile. La lastra è ora conservata nella collezione Gernsheim della Austin Uiversity, Austin, Texas.].

"Da allora la fotografia ha cambiato molte volte faccia e sicuramente quella che si pratica oggi comunemente non ha niente a che fare con quella vagheggiata da Niépce" [Ugo Mulas, cit., p.91.].

La verifica di Mulas vuol essere la replica di questa veduta sul cortile. Egli fotografa da una finestra di casa, con un rullino Agfa e un 20 millimetri, un cortile in fondo al quale si trova l'insegna di un magazzino di materiale fotografico all'ingrosso che reca il marchio "Agfa". Realizza quindi una serie di tre foto nello sviluppo della quale ha estrema importanza l'ingrandimento. Nella prima immagine il cortile è ripreso in modo tale da esaltarne la profondità, rendendo pressocché illeggibile l'insegna del magazzino. Ma visibile in questa immagine è la marca Agfa, stampata a contatto con il bordo del fotogramma, che cattura l'attenzione a causa della scarsa perspicuità dell'immagine del cortile. La seconda immagine ingrandisce la parte della foto precedente che inquadra solamente il cortile, escludendo il margine perforato del fotogramma, rendendo così più leggibile nell'insieme il cortile senza però che la scritta dell'insegna sia ancora chiaramente percepibile. Un ingrandimento ancora maggiore ci offre la terza immagine di questa verifica e consegna alla vista la grana dei sali d'argento che compone la materia della scritta a losanga "Agfa" del magazzino. Il ritmo della sequenza si svolge secondo due linee parallele: da un alto, la marca esterna al fotogramma, stampata inizialmente come bordo del negativo, si introduce all'interno dell'immagine e ne diviene la protagonista visibile; dall'altro, si ha una progressiva manifestazione degli elementi invisibili che fanno la sensibilità della pellicola e permettono che la luce vi si imprima. La marca del magazzino diviene allora il nodo centrale dell'intera sequenza, il punto in cui l'elemento tecnico diviene ancora una volta visibile con i sali d'argento, che però non cancellano l'immagine. La superficie sensibile, mostrando ciò che non è visibile e che permette la fotografia, compone la scritta dell'insegna dell'ingrosso. In una stessa immagine si condensa allora l'emergere del principio costitutivo della fotografia, la denuncia della sua mercificazione, il dichiarato pericolo di un uso smodato della tecnica dell'ingrandimento che tradisce il senso principale della fotografia, ritenendola semplicemente uno strumento, riducendola a merce.

3. Il tempo, lo spazio ed il corpo della tecnica.

Più di una volta nelle Verifiche Mulas torna sulla questione del tempo della fotografia e la matrice comune delle sue riflessioni in merito sembra sia considerare il tempo come una componente ineliminabile dalla prassi fotografica, percepibile pienamente però solo dopo che l'evento, con la sua durata, si sia prodotto. Nel corso di queste riflessioni Mulas metterà a frutto tutto ciò che, in tema di costruzione della durata dell'immagine, aveva riscontrato in Walker Evans e Dorothea Lange.

La Verifica 3 - Il tempo fotografico è dedicata a Kounellis, che aveva allestito uno spazio per una mostra tenutasi a Roma [Si tratta della mostra Vitalità del negativo, tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal Dicembre del 1969 al Gennaio del 1970.]. In questa occasione Kounellis esponeva un pianoforte a coda, posto in un angolo di un salone vuoto abbastanza grande, che veniva suonato per alcune ore durante il giorno da un pianista. Ogni volta il pianista eseguiva una parte del Nabucco che Kounellis aveva lievemente modificato, con l'intento di creare un motivo musicale ricorrente. Il movimento del pianista, che tornava due volte al giorno nella sala per suonare un paio d'ore e poi andar via, ed il ritornare della melodia su se stessa, ogni volta che essa veniva suonata, formavano un periodo ritmico quasi ossessivo. Ma la ripetizione non era disgiunta dal passare del tempo, che viveva degli intervalli tra una rappresentazione ed un'altra. Come rendere fotograficamente questa situazione temporale densa? Mulas decide di assumere un punto di vista fisso e lontano dall'angolo in cui era posto il pianoforte, in modo da restituire i rapporti spaziali tra il pianoforte e il grande salone bianco e non soverchiare il movimento periodico della musica con quello dell'operatore. E' chiaro inoltre che una sola foto non avrebbe potuto rendere la dinamica temporale della performance predisposta da Kounellis, a meno di non essere accompagnata da una didascalia che spiegasse ciò che la foto singola non riusciva a mostrare con chiarezza. Mulas decide quindi di utilizzare l'intera progressione numerica di una pellicola, ogni fotogramma della quale non fa che presentare la stessa immagine: un pianista che suona, ripreso da lontano in modo che nulla del suo viso, delle sue mani, possa vedersi, annullando così la persistenza nell'immagine di elementi non pertinenti al significato complessivo della performance. Egli scatta allora trentasei foto in tempi diversi ma dello stesso soggetto. La terza Verifica si compone perciò di trentasei fotogrammi che ripetono una stessa immagine, mentre la numerazione progressiva che li distingue segnala l'ingresso della ripetizione in un periodo temporale, evitando di credere che si tratti della stessa immagine che ripropone insistentemente lo stesso istante di tempo. E' in realtà una ripetizione di un atto che dura, che si svolge nel tempo e si riprende su uno spazio, la lastra sulla quale sono montati i fotogrammi, sul quale riprendere il proprio decorso temporale. La ciclicità del tempo si dispiega orizzontalmente sullo spazio comune ai vari fotogrammi, mentre la coincidenza dello spazio fa emergere per contrasto la singolarità di ogni immagine che, segnata da un numero di fotogramma diverso, mostra la variazione temporale della ripresa.

Lo svolgimento progressivo dei numeri traduce un incremento della dimensione temporale, al quale non fa riscontro alcuna variazione nell'immagine rappresentata su uno stesso spazio. Utilizzando un limite fattuale della pellicola, che è composta appunto da soli trentasei fotogrammi, Mulas traduce la logica temporale della performance con la durata della fotografia, la quale richiede il concorso dello spazio e del tempo lungo lo sviluppo di una sequenza. Il problema di raffigurazione che Mulas risolve quindi ha a che fare tanto con la peculiare temporalità della fotografia quanto con la ricerca di equivalenza espressiva tra due modalità di significazione differenti. Spazio e tempo della performance rivivono nell'evento che si svolge sotto i nostri occhi nella sequenza fotografica. Non si tratta quindi di tentare di superare i limiti della tecnica fotografica, che mancherebbe in modo cronico della diacronicità, ma di utilizzare il limite stesso della fotografia, per interpretare la durata di un evento, unica dimensione in cui lo spazio ed il tempo della foto si rendono visibili. La terza Verifica propone una esemplificazione di quanto si era già visto con la prima e la quinta, nelle quali si interrogavano quei limiti spazio temporali della scrittura fotografica che qui sono sfruttati per dare luogo ad una trascrizione effettiva di un evento.

Il tempo della tecnica fotografica è un tempo sensibile, legato al profilarsi delle cose e al medium attraverso cui esse vengono viste: la luce. E' un tempo che si fa interfaccia costitutivo tra il mondo e chi lo guarda. Di questo parla la Verifica 9- Il sole, il diaframma, il tempo di posa. La verifica si rivolge al sole e alla luce che con Fox Talbot divengono protagonisti dell'operazione fotografica; ancora una volta la dedica è lo spazio di una riflessione che riprende il senso originario dell'invenzione fotografica per ridelinearne i contorni di senso.

Puntando costantemente un obbiettivo sul sole, Mulas realizza una sequenza di foto, per ciascuna delle quali egli varia il rapporto tra il diaframma ed il tempo di posa. Mulas inizia a fotografare con un rapporto minimo tra la chiusura del diaframma e il tempo di posa, di valore di un duemillesimo 22, procedendo lentamente ad aprire il diaframma fino ad arrivare, attraverso una serie di aperture 16 - 11 - 8, ad un'apertura massima di 3,5. Usando una pellicola molto poco sensibile (12 din) ed un filtro rosso medio per evitare di bruciare il film, con l'apertura minima si riducono il sole ed il cielo ad un piccolo punto luminoso al centro del fotogramma, mentre si giunge alla bruciatura del negativo e ad un positivo completamente bianco con l'apertura massima. Ripartendo da quest'ultima Mulas ricomincia a chiudere progressivamente il diaframma fino a raggiungere il grado di chiusura di partenza. Massimo e minimo del rapporto fra il diframma e il tempo di esposizione non costituiscono dunque dei confini netti della rappresentazione ma si sciolgono come elementi all'interno di un periodo di ripresa che ciclicamente si apre e si chiude: nel mezzo tutti i valori di luminosità ottenibili, presenti nei fotogrammi nella loro irriducibile varietà.

Noi vediamo delle forme, delle immagini, ma non vediamo normalmente la luce che ci mette in condizione di vedere. I nostri occhi ricevono energia luminosa ma noi vediamo delle cose, dei profili delle persone e degli oggetti, così come i nostri occhi si servono spesso di mezzi per guardare altrimenti dalla percezione quotidiana, come le macchine fotografiche e cinematografiche, ma non vediamo le tecniche che ci fanno vedere. Eppure questi invisibili, la luce ed i mezzi della visione comunicano.

Questo sembra essere uno dei significati della Verifica 9: Mulas usa infatti un grandangolo da 20 millimetri molto curvato, con il quale si forma nell'immagine, intorno al sole, un cerchio, quasi un guscio di consistenza atmosferica, che a volte vediamo effettivamente durante il giorno. Il risultato di una scelta tecnica può quindi rendere il senso di una visione quotidiana, pur nell'assenza di quest'ultima. Analogamente i valori di luminosità che noi percepiamo in un'immagine sono in rapporto sì con l'esposizione alla luce ma anche ad una tecnica che la veicola e traduce in immagine. La luce solare, coniugata alla poetica dell'eliminazione della mano dell'uomo, era il fatto da registrare senza alcuna intromissione nelle fotografie, scritture autonome della luce. Per Mulas il fatto è invece sempre un evento, che si costituisce con una pratica espressiva, abitata da un punto di vista, e un mondo correlativo ad essa. La luce è l'invisibile proposta del mondo, che si fa vedere solo nella risposta che le offriamo, per mezzo di operazioni che di necessità restano celate ai nostri occhi per permetterci di guardare. La luce non è un fatto come la tecnica non è uno strumento inerte, così il tempo della loro correlazione non è un istante o un parametro che misura una registrazione automatica delle immagini. Si tratta di un tempo sensibile, nel quale si forma quel nuovo strato di cui parlava Merleau-Ponty [E' il tempo della nascita di un individuo che non si riduce ad essere un istante isolato ma si dispone secondo una dimensione temporale complessa che è rapporto al mondo: "L'evento della mia nascita non è un passato , non è caduto nel nulla alla stregua di un evento del mondo oggettivo: esso impegnava un avvenire...c'era ormai un nuovo 'ambiente', il mondo riceveva un nuovo strato di significato", Fenomenologia della percezione, cit., p.521.], che è un significato emergente del mondo. Assorbiamo radiazioni luminose ma vediamo cose, perché lo sguardo è una relazione in cui noi costruiamo la nostra relazione al mondo nel tempo sensibile della significazione.

La Verifica 4 - L'uso della fotografia: ai fratelli Alinari - 1971 mostra che ogni significato attribuibile ad una foto, anche quando essa sia di propaganda, nasce dal tempo sensibile della fotografia. Questa Verifica è un vero e proprio ready made, una stessa lastra dell'archivio Alinari, con due diverse immagini del re Vittorio Emanuele II, fotografata e firmata da Mulas, segno di un'interpretazione che ce la restituisce mutata. L'immagine sulla lastra a destra ritrae un re invecchiato, dagli occhi stanchi, che si inclina mollemente sul suo stesso peso, mentre l'immagine a sinistra è un ritocco della precedente e corrisponde all'immagine ufficiale resa pubblica. Lo sguardo del re acquista fierezza, il portamento si fa eretto, le rughe e le borse degli occhi sono eliminate su un viso ora disteso, i capelli rinfoltiti. Nel complesso un'immagine di vigore istituzionale.

"Non mi avrebbe fatto la stessa impressione se avessi visto due foto del re staccate una dall'altra su due diversi negativi, su due diverse lastre, una ritoccata e una no, perché, anche questo è risaputo, le fotografie ufficiali vanno ritoccate. La molla che fa scattare questo straordinario meccanismo è proprio che le due immagini, la vera e la falsa, coesistono sullo stesso spazio, nello stesso momento" [Ugo Mulas, cit., p.87.].

Per sottolineare questo effetto di coesistenza, Mulas riproduce in stampa i bordi della lastra di vetro che racchiudono le due foto su un unico supporto, i quali si vedono nella foto come una bianca cornice. Non si tratta di un fotomontaggio ma di un esempio lampante del possibile uso della fotografia: gli interventi grafici, che ritoccano l'immagine, ne rendono eterni i tratti, ne cancellano la temporalità effettiva e mostrano un'icona dell'autorità.

Ma l'eternità dell'icona si può raggiungere solo nello stesso spazio e nello stesso tempo della foto originaria, per mezzo della stessa superficie sensibile che coglie anche il passaggio del tempo. Il fatto che le due immagini si ritrovino a coesistere sullo stesso piano conferma, secondo Mulas, che è la scrittura sensibile, col suo spazio-tempo, a fornire la base ad interventi che tendano a rimuovere la durata dell'immagine verso il sogno di un'icona eterna.

Tempo e spazio sono correlativi all'assunzione di un punto di vista che si faccia carico di esprimere gli orizzonti in cui si profilano le cose, che vengono restituiti nella costruzione dell'immagine attraverso la scelta delle ottiche da utilizzare. Che lo spazio, come già il tempo, perda ogni suo carattere di sostanza a priori per divenire una pura struttura relazionale che compone i valori dell'immagine nella foto è quanto mostrano le seguenti verifiche. La Verifica 8 - Gli obiettivi e l'obiettività - A Davide Mosconi, Fotografo risponde alla domanda: data una certa proiezione su un piano attraverso l'obiettivo, quali rapporti spaziali si ottengono nella costruzione dell'immagine? Mulas realizza due fotografie in cui cerca di riempire lo spazio del fotogramma con la testa di un amico, che assumerà però valori visivi diversi a seconda dell'obiettivo usato. La prima foto è scattata con un obiettivo da 20 millimetri e da una distanza dalla testa del soggetto di una trentina di centimetri. Il viso che appare nell'immagine, data la scarsa distanza della macchina al momento della ripresa, spinge verso il primo piano e le cose immediatamente dietro di essa sfuggono velocemente allo sguardo. Primo piano e sfondo quasi si arrotondano nel momento di massima tensione, senza alcun piano intermedio, volti a separarsi definitivamente. L'impressione derivata da questo viso non è sicuramente quella di una persona affidabile, ma tesa a raggirare sempre il lato che gli avvenimenti ci mostrano, in grado di ritirarsi agevolmente su un retroscena di cui non conosciamo l'accesso. La seconda foto è invece scattata con un teleobiettivo da 300 millimetri, che richiede un allontanamento di circa tre metri e mezzo per inquadrare la testa del soggetto nel pieno del fotogramma, come avvenuto per la prima. In questa immagine lo sfondo viene completamente esaurito nel primo piano. Tutto viene avanti e si schiaccia frontalmente. Con la perdita della struttura sfondo-figura non si avverte più la realtà dello spazio, sicché, avverte Mulas, il volto senza alcuno spessore s'invola nel senza tempo dell'eroe che sorvola ogni ostacolo con la sua sola esistenza, tanto potente quanto diafana, per il modo in cui passa attraverso le cose del mondo. La Verifica 11 - L'ottica e lo spazio - Ad Arnaldo Pomodoro non è stata realizzata, ma dai resoconti verbali di Mulas e dal titolo sappiamo che essa avrebbe dovuto affrontare lo stesso tema dell'ottava verifica, incentrando l'interesse però sulla costruzione di un ambiente. Il luogo prescelto sarebbe stato lo studio di lavoro di Pomodoro, in cui la distribuzione degli oggetti, i piani sui quali essi sono disposti, sarebbero stati messi in relazione con la figura dell'artista. Mulas si interroga dunque su quella costruzione dell'immagine che possa rendere i rapporti sussistenti all'interno di un ambiente in cui, abbiamo già visto, egli coglie lo spazio di vita intenzionale dell'artista. Porre l'artista non in primo piano ma all'interno di uno spazio che può prender forma in rapporto al suo fare, costretto nei movimenti dalla conformazione del luogo in cui si trova significa poter cogliere quella intensità d'atto che dura nella costituzione dell'opera. Il progetto di Mulas consisteva nel fotografare dapprima l'artista con un piano medio ed inserirlo nello spazio e nel tempo concreti che conferiscono significato alla sua attività, per poi usare obiettivi ed una focale sempre più lunga e avvicinare sempre più la figura dell'artista, isolandolo da contesto di lavoro. In questo caso si sottrarrà la figura a qualsiasi dimensione spaziale e temporale, rendendo impossibile comprendere lo svolgersi di un'esistenza che è significazione.

Ci troviamo ancora vicini alla fenomenologia di Merleau-Ponty, per la quale lo spazio inerisce al movimento intenzionale con cui una determinata esistenza oltrepassa i significati già formati verso nuove sintesi. Il progetto che accompagna ogni nostro atto è un movimento che traccia le distanze nello spazio e nel tempo, nel momento stesso in cui supera quelle già costituite. Il corpo non è un semplice oggetto come il movimento non è un semplice spostamento nello spazio già preformato a noi. Nel momento stesso in cui agiamo, misuriamo lo spazio, lo generiamo, così come le possibili traiettorie dell'ambiente a noi circostante ci suggeriscono di calcare determinati percorsi.

Lo spazio allora si distribuisce in un gioco continuo di profili, nei quali si scheggia la presunta identità delle cose, inesistente se non all'interno di un sistema di sfondi e primi piani sui quali il soggetto stesso si muove, come sui bordi. Il costruttivismo del progetto della decima verifica si sposa con questo atteggiamento fenomenologico. La Verifica 10 - Il Formato è anch'essa una verifica non realizzata, dedicata ad un altro elemento della tecnica fotografica essenziale per il significato del risultato finale. Scegliere, per esempio, un formato di piccole dimensioni equivale a rifiutare di ingrandire molto le immagini, evitando di perdere in compattezza visiva e la stilizzazione della grana visibile.

Mulas progetta di fotografare un edificio costruito secondo il modulo delle proprie finestre, le dimensioni delle quali vengono poi variate proporzionalmente in rapporto alla grandezza dell'edificio e al numero dei piani da costruire. La foto avrebbe dovuto essere ingrandita in modo da inquadrare solo l'insieme delle finestre che fanno da modulo, senza far vedere l'inizio e la fine dell'intera costruzione, sicché l'immagine consisterebbe in una serie di finestre, in una parete di invarianti. Mantenendo costante la grandezza dell'immagine, Mulas intendeva riportarla su carte dal piccolo formato, diminuendo sempre più le dimensioni da 40x50 a 30x40 a 24x30 e così via. In ciascuna foto a cambiare sarebbe stato solo il numero delle finestre, ma in ciascuna sarebbe sempre stata visibile l'invariante, il modulo che permette la ricostruzione dell'insieme. Questo a testimoniare che ogni elemento dello spazio riporta la logica dell'insieme di cui fa parte, perché le cose non sono separate le una dalle altre ma comunicano in un sistema che le unifichi nella loro diversità. Lo abbiamo già sottolineato: è possibile decontestualizzare un oggetto, un'immagine può rimandare ad una sequenza di cui è solamente una parte, ed esprimere così la durata di un evento perché il mondo è un ambiente in cui le cose si profilano e si danno per angolature diverse secondo lo stile di un punto di vista che correlativamente le sollecita. Le caratteristiche della percezione e della tecnica fotografica, la cui capacità espressiva dipende dalla scelta di un tempo e di uno spazio, si incrociano proficuamente pur senza confondersi.

Il senso di questo incontro viene avvicinato da Mulas dal lato del corpo, di quelle operazioni del corpo che sono parti integranti della tecnica fotografica, nella Verifica 7 - Il laboratorio - Una mano sviluppa l'altra fissa - A sir John Frederik William Herschel.

Sir Herschel risolse il problema di fissare le immagini della camera oscura, dopo esser venuto a conoscenza delle ricerche in merito di Fox Talbot e Daguerre. Si ricordò, da esperimenti precedenti, che l'iposolfito di sodio scioglieva i sali d'argento e nel 1839 riuscì a fissare le immagini [Scrive sir Herschel in una lettera del 29 Gennaio 1839: "Provato l'iposolfito di sodio per bloccare l'azione della luce lavando via utto il cloruro d'argento o un altro sale d'argento. Riuscita perfetta: Fogli di carta per metà sottoposti a trattamento, per metà protetti dalla luce con una copertura di cartone, una volta allontanati dalla luce, furono spruzzati con iposolfito di sodio, poi lavati in acqua pura; asciugati, e quindi esposti di nuovo. Dopo ogni esposizione la metà oscurata rimase scura, la metà bianca, bianca, come se fossero stati dipinti col nero di seppia...Il problema di Daguerre è così risolto"; cit. in Newhall, Op. cit., p.28. La sostanza chimica usata da Herschel è oggi conosiuta come tiosolfato di sodio, ma viene ancora chiamata dai fotografi "iposolfito".]. Egli non si preoccupò di realizzare delle foto ma si occupò del problema direttamente da un punto di vista chimico, cercando la soluzione adatta per fissare la parte bianca e quella nera di una carta in precedenza per metà esposta alla luce e per metà protetta con un cartone. Mulas riprende il gesto di Herschel, incentrando l'intera verifica sullo sviluppo e il fissaggio e sul luogo nel quale queste operazioni vengono realizzate, in cui si porta a termine quanto si è iniziato in fase di ripresa. Già Man Ray aveva lavorato solo con il laboratorio, senza pellicole già impressionate ed obiettivi, ma solo con le carte, i film, la luce, lo sviluppo ed il fissaggio. Ma l'intento di Mulas non è tanto produrre delle immagini con il laboratorio fotografico, quanto far apparire le operazioni che lo abitano, l'apporto delle quali andrà a contribuire al significato finale della foto. Dopo aver posto tanta attenzione all'ambiente degli artisti fotografati, in cui si svolge la loro attività, Mulas rivolge lo sguardo al proprio ambiente. L'oggetto fotografico che ne risulta è un foglio per metà bianco e per metà nero con le impronte di una mano su toni scuri e contorno di un bianco netto ed una dai toni chiari contornata di nero. Si dà visibilità così al fatto che le operazioni del laboratorio vengono compiute dalle mani, dal corpo: prendere un foglio di carta, piazzare la pellicola nel posto giusto dell'ingranditore, mettere a fuoco l'obiettivo, prendere la foto impressionata ma latente e immergerla nello sviluppo, lavarla e poi fissarla. Si tratta di operazioni "tipiche" del corpo, nell'accezione di Merleau-Ponty, ovvero operazioni che si sono sedimentate in abitudine in risposta alle sollecitazioni del mondo, comportamenti significativi che ci permettono di dar sempre un nuovo senso al mondo, azioni che viviamo ormai come se fossero una cosa sola col mondo che ci permettono di vedere. In questo senso il corpo, con i suoi movimenti intenzionali è già sempre parte del mondo e nello stesso tempo suo mezzo di espressione. Mulas prende un foglio di carta e lo sensibilizza alla luce, appoggiandovi sopra le mani, dopo averne immersa una nello sviluppo ed una nel fissaggio. Immersa la metà del foglio con l'impronta già fissata nello sviluppo, la parte ad essa circostante diventò nera, poiché aveva precedentemente preso luce; immerso poi il foglio nel fissaggio, l'impronta della mano a contatto con lo sviluppo, già apparsa per la sensibilizzazione della carta, rimase su toni neri. La mano bianca e quella nera cadono a centro della propria metà del foglio e rimangono rigidamente separate, raffigurando così la logica delle operazioni tipiche alle quali esse rimandano: in laboratorio le due soluzioni chimiche non devono mai venire a contatto, perché il fissaggio impoverisce di molto lo sviluppo.

Il senso fenomenologico delle Verifiche ci ha riportato dunque, dopo aver esaminato lo spazio ed il tempo della tecnica fotografica, al corpo. Corpo e tecnica si appartengono, non nel senso che l'una sia il prolungamento dell'altro, una semplice protesi, poiché la tecnica esprime il senso del mondo solo in quanto si compone con l'istanza di mediazione che abita il corpo, che è contemporaneamente mondo e punto di vista su di esso. Così il percorso di Mulas fin qui analizzato ci ha portato a scoprire il senso di quelle operazioni con le quali i materiali del mondo assumono un senso per noi, sfiorando i luoghi di una intellegibilità colta quasi allo stato nascente.

4. La fotografia e lo specchio del mondo.

L'ultimo gruppo di Verifiche che analizzeremo affrontano, in modi diversi, il rapporto tra il fotografo e il mondo fotografato.

La descrizione della Verifica 2 dedicata a Friedlander ci ha direttamente immesso in un clima fenomenologico. Il volto del fotografo che si specchia nell'atto del fotografare una parte del mondo che lo include, una parete con lo specchio che ne rimanda l'immagine, ci ricorda che il fotografo nasce all'interno del visibile, che è egli stesso visibile e solo per questo gli è permesso di esprimere il mondo nel suo sguardo. Lo sguardo del fotografo nasce come risposta ad un mondo dal quale è egli stesso guardato, poiché ogni sguardo risponde ad una serie di sollecitazioni provenienti dall'ambiente ad esso circostante. Che il fotografo sia visibile significa proprio non solo che egli può essere ritratto da qualcun altro, ma che è parte integrante di un sistema di orizzonti e prospettive dal quale è collocato come un potenziale punto di vista. Perché ci siano percezione e visione fotografica è necessario questo sdoppiamento del fotografo, la presenza del quale sembra raddoppiare il mondo. Come nell'esempio degli specchi citato da Merleau-Ponty, nella cui proliferazione di immagini non si può dire chi sia a guardare per primo e chi ad esser guardato. Non è neanche necessario stabilirlo, in quanto ad essere necessaria è la correlazione tra un mondo ed uno sguardo. La dedica a Friedlander muove la riflessione di Mulas verso l'evento stesso del fotografare, dello scattare e comporre foto che esprimano un mondo al quale apparteniamo, con i nostri occhi, con le nostre operazioni percettive e significative. Anche per Friedlander il fotografo è spesso un ombra nella scena fotografata, come se l'ombra duplicasse il mondo nel momento stesso in cui lo abita. Per tutti questi motivi non è possibile che il soggetto che vede si guardi vedere. Ciò significherebbe che il soggetto può isolarsi dal mondo, chiudersi nella propria sensazione percettiva, ritirandosi ad un livello della propria intimità tale da vedere la propria sensazione di vedere. Ma questo non accade né nella percezione quotidiana né altrove. Merleau-Ponty ricorda che io vedo, ma non vedo di vedere con la vista. La vista non è un oggetto visibile all'interno del mondo, non è un fatto del mondo, ma essa fa vedere il mondo. Nella Verifica 2 di Mulas tutto ciò si traduce nell'immagine in cui il volto del fotografo è dietro l'obiettivo della macchina. Probabilmente Mulas ha deciso di usare un obiettivo così grande non solo per impedire che nello specchio si riflettesse una porzione maggiore del suo volto, non rendendo così il senso della sua verifica, ma anche per dare l'impressione che la macchina e il volto si compongano insieme. Ogni soggetto è da sempre un potenziale punto di vista, che non può non essere inerente ad una pratica significativa, con le proprie tecniche ed i propri mezzi.

L'etica dello sguardo fotografico che Mulas ci mostra attraverso tutta la sua produzione è un invito alla responsabilità verso il mondo. Chi vede non è mai solo. Anche guardandosi allo specchio, l'immagine tradirà la presenza di un punto di vista e di una porzione di mondo riflessa e non prevista da chi vede.

Pure il soggetto della visione è nello sguardo, è una possibilità della vista, è nel fuoco della visione, per cui egli non può mai vedersi nell'atto di vedersi se non come sfocato.

Indipendentemente dall'artificio ottico della sfocatura, perseguita con effetti stilizzanti, lo sfocato viene usato da Mulas per indicare proprio questa condizione della visione.

Ciò accade nella Verifica 13 - Autoritratto con Nini, in cui nello stesso fotogramma si trovano le immagini di Mulas e della sua compagna. Nonostante siano entrambi sullo stesso piano, alla stessa distanza dall'apparecchio fotografico, l'immagine di Nini è perfettamente a fuoco e tagliata con contorni netti, mentre quella di Mulas, realizzata in un secondo momento con l'autoscatto, sembra fluttuare via.

Nonostante si sia posto di fronte alla macchina, grazie ad un'espediente che avrebbe potuto permettergli di vedersi, la sua presenza intenzionale, prima che fisica, alla macchina, gli impedisce di vedersi a fuoco. E' una stupenda conferma della seconda verifica:

"Quando il fotografo ha messo anche l'autoscatto, perché a un certo punto la macchina lavori da sé, in quel momento, rispetto al suo volto, è un cieco; al massimo, se fa un grosso sforzo di concentrazione (anzi forse è costretto a chiudere gli occhi come un cieco), riesce forse a ricostruire un'immagine del suo volto, ma sempre molto vaga: diciamo che proprio il corrispondente fotografico di questa visione è proprio lo sfuocato" [Ugo Mulas, cit., p.101.].

Che l'idea di utilizzare lo sfocato sia venuta in mente a Mulas osservando l'autoritratto di El Lissitzkj del 1927, Il costruttore è significativo per la particolare accezione che Mulas ha sempre dato al costruttivismo. Là dove Bresson considerava la composizione delle forme nell'immagine fotografica essenziale, poiché in essa doveva restar traccia del passaggio fugace della vita e del raptus furtivo del fotografo, Mulas riteneva la composizione dell'immagine analoga ad una costruzione, in dipendenza di una scelta del fotografo. La differenza tra i due passa nel modo di intendere il rapporto tra la fotografia ed il mondo: per Mulas si tratta di costruire un sistema di immagini con cui estrarre dalle cose la sottile pellicola del senso, della loro durata nel momento in cui si guarda al possibile accadere. Il costruire viene inteso da Mulas in una chiara accezione fenomenologica, come contributo di un punto di vista alla produzione di un evento. Più volte abbiamo infatti ribadito che la presenza del fotografo è ineliminabile dalla scena fotografata. E' una presenza che ha molto del riflesso, dello sdoppiamento dal mondo visto.

Tutto ciò si fa evidente nella Verifica 12 - La didascalia - A Man Ray

. E' un'immagine in cui si ritrae Man Ray indicare con un gesto della mano un riquadro di stucco, che delimita una porzione di una parete come se fosse la cornice di un quadro, mentre proferisce le parole "Ça c'est mon dernier tableau". Questa frase è riportata da Mulas all'interno del riquadro. La didascalia che avrebbe dovuto spiegare il gesto di Man Ray ed il significato della foto dall'esterno, viene riportata all'interno del corpo dell'immagine. In questo modo la foto non perde il suo valore visivo in favore di un testo verbale e il senso della sua genesi è preservato. La fotografia infatti è stata scattata alla frase pronunciata da Man Ray che sospende la materialità del riquadro della parete e dà significato al suo stesso gesto. E' il senso delle parole, veicolato da un suono invisibile, a sospendere lo spazio ed il tempo nella dimensione di un quadro possibile. Ancora una volta non si tratta di registrare un fatto, ma di dar espressione fotografica ad un evento che si attua proprio sospendendo l'esistenza dei fatti. Ma come rendere questa sospensione, come rendere la voce in fotografia. Mulas deve allora comporre l'evento nell'immagine fotografica e scrivere al suo interno la frase. Non si tratta di un'operazione a posteriori, perché la foto è stata scattata alla frase ed essa, in un certo senso è presente nel senso della foto fin dallo scatto. Con la sua scritta, che costruisce il visibile della foto, Mulas si spinge fino al limite della fotografia e ne estrae il senso. La costruzione della foto mostra la costituzione dell'immagine, facendo della foto la superficie timpanica sulla quale si è impressa, quasi si scrivesse, la voce di Man Ray che ha provocato la fotografia.

La sensibilità della scrittura fotografica viene allora trasfigurata come scrittura alfabetica, anch'essa una tecnica di trascrizione e di espressione della voce, dentro l'immagine. L'evento va prodotto con la partecipazione alla dimensione nella quale esso si attua e il paradigma della testimonianza, che regge molte delle fotografie di Mulas, non vuol dire altro che l'inserimento di un punto di vista, le scelte di costruzione dell'immagine sono l'unico modo per accedere al senso che il mondo ha per noi. Non solo, ma va prodotto anche il piano sul quale si incontreranno le capacità di un soggetto e le occasioni del mondo, la superficie sulla quale si inscrive il senso che le cose hanno per noi. La significazione, come è intesa da Mulas e Merleau-Ponty, richiede una superficie sensibile lungo la quale il vedente ed il visibile vengano a contatto. Ma questa superficie non è mai data una volta per tutte, bensì essa va continuamente costituita, sulla base dei significati passati e l'attesa di quelli futuri. Gli interventi di Mulas, sia in fase di ripresa che di stampa, sia di scrittura sulla superficie della foto vanno intesi in questa direzione. La verifica dedicata a Man Ray è esemplare: le nostre orecchie ricevono delle vibrazioni sonore ma sono suoni e significati ad essere uditi. Affinché ciò accada è necessaria la partecipazione del soggetto, la sua attività di significazione [Potrebbe essere questa consapevolezza della necessità di costruire il piano sul quale incontriamo il mondo ad aver sempre allontanato Mulas da un certo clima informale, pur molto forte negli anni della sua formazione e che egli ben conosceva. Nell'informale il piano di iscrizione dei segni, sia che essi si esauriscano nel loro valore grafico o materico sia che ci parlino del mondo, è quasi sempre già dato. Quando invece Mulas scrive sulla pellicola fotografica, non solo traccia dei segni grafici, ma rimanda alla costituzione dei suoni e dei significati, consapevole del carattere ancipite del piano su cui scrive: la superficie sensibile della pellicola che è mondo e mezzo di espressione del mondo.].

Ad essa instancabilmente si rivolge Mulas nella sua ultima Verifica - A Marcel Duchamp. Questo oggetto fotografico consiste nel negativo non impressionato e stampato a contatto della prima verifica, il vetro del quale, usato per schiacciare le strisce del negativo su carta, è stato rotto con un colpo di martello. Il vetro e lo specchio, il gesto improvviso e la rottura che fanno parte integrante dell'opera. Gli elementi di questa Verifica rinviano chiaramente a Duchamp e al Grande Vetro, alla costruzione di un'opera che sia una non-immagine, per sospendere il rapporto ingenuo di relazione tra le immagini pittoriche ed il mondo. Duchamp decontestualizza il valore dell'immagine con il trompe l'oeil di immagini ricavata da opere già precedentemente realizzate, quasi fossero objet trouvé, e con la rottura del vetro. Se il vetro è anche uno specchio, la sua rottura ricorda che esso non ha la funzione di rappresentare simmetricamente il mondo, quasi ne fosse una copia.

Più che riprodurre in sé il mondo, lo specchio ha una storia, segnata dal gesto della rottura, dalla ferita che ne rivela la materia, il vetro. La rottura del vetro di Mulas riprende e muta il valore del gesto di Duchamp. La ferita che riga il vetro, che ha mandato in frantumi lo specchio si carica di una grande intensità temporale. La pellicola esposta con la sola linguetta ad aver preso luce mostrava la durata dell'attesa di luce, della disponibilità pura della superficie sensibile ad una impressione possibile. Ma perché il senso dell'evento si produca è necessario l'intervento del soggetto, la scelta del fotografo. Il tempo lungo della possibilità si compone con l'irruzione del gesto che ne estrae il senso per noi, che partecipiamo all'evento del mondo, al suo tradursi in immagine. La frattura del vetro che schiaccia la pellicola si carica di storicità, è il tempo della significazione, del venir alla luce di un'esistenza. Mulas conclude il suo percorso di riflessione sulla pratica del fotografare ritornando al tema della durata, strana combinazione di attesa e intensità, stile d'arte e di vita.


Le immagini delle "Verifiche"

 

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